Cass. pen. sez. IV, 23 aprile 2008, n. 25288
La sentenza si segnala in particolare per i seguenti enunciati:
… Dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 8, commi 3 e 10, emerge con certezza - come osserva la dottrina - che “i componenti del servizio aziendale di prevenzione, essendo considerati dei semplici ausiliari del datore di lavoro, non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, proprio perchè difettano di un effettivo potere decisionale”. “Essi sono soltanto dei consulenti e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni, come pacificamente avviene in qualsiasi altro settore dell’amministrazione dell’azienda - ad esempio, in campo fiscale, tributario, giuslavoristico - vengono fatti propri dal vertice che li ha scelti sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato e che della loro opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario”. “Il fatto, però, - ed è questa la doverosa puntualizzazione - che il D.Lgs. n. 626 del 1994 abbia escluso la sanzionabilità penale o amministrativa di eventuali comportamenti inosservanti dei predetti componenti interni o esterni del servizio aziendale di prevenzione e protezione, non significa che questi componenti possano e debbano ritenersi in ogni caso totalmente esonerati da qualsiasi responsabilità penale e civile derivante da attività svolte nell’ambito dell’incarico ricevuto”.
Il che vuoi dire che “occorre distinguere nettamente il piano delle responsabilità prevenzionali, derivanti dalla violazione di norme di puro pericolo, da quello delle responsabilità per reati colposi di evento, quando, cioè, si siano verificati infortuni sul lavoro o tecnopatie”…
(OMISSIS)
FATTO
Con sentenza, in data 21.09.2004, il Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli ha ritenuto M.F., S. A., R.R. ed E.F. responsabili del delitto di cui all’art. 113 c.p., - art. 589 c.p., comma 2, commesso in (OMISSIS), ai danni di E.G. e ha condannato, applicate a tutti le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla menzionata aggravante, il primo ed il quarto, alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno, il secondo ed il terzo alla pena di anni uno di reclusione ciascuno, oltre alle spese in solido, con la condanna in favore delle parti civili al risarcimento del danno.
Avverso tale sentenza proponevano appello tutti gli imputati, oltre ad altri due coimputati ( G.A. e C.E.) anch’essi riconosciuti colpevoli, e la Corte Territoriale di Napoli, in data 26.01.2007, confermava la responsabilità penale dei primi quattro con le stesse pene, mentre assolveva il G. ed il C..
In punto di fatto, la Corte esponeva che il sinistro si ebbe a verificare, in data 5 settembre 1997, durante i lavori di smantellamento di uno dei fabbricati, denominati “(OMISSIS)”, del quartiere di (OMISSIS), e precisamente la Vela “(OMISSIS)”.
Tali lavori di smantellamento - che prevedevano, quale operazione preliminare alla demolizione delle parti murarie a mezzo di esplosivo, la rimozione delle parti metalliche del fabbricato - erano stati affidati dal Comune di Napoli in appalto ad un consorzio di imprese e cioè la Maciocia s.r.l. di cui era amministratore unico M.F. e la Edil Soccavo s.a.s., di cui era amministratore E.F.. Il giorno dell’incidente si stava procedendo alla rimozione di alcune strutture metalliche di collegamento esterno tra i due edifici della Vela da demolire. Tali strutture erano una sorta di passerelle che consentivano, nella conformazione originaria degli edifici, il passaggio da un edificio all’altro e la rimozione delle stesse stava avvenendo tagliandole manualmente, con il cannello ossiacetilenico, alle estremità che le collegavano alla parte muraria, per poi convogliarle in basso al di sotto dell’edificio, La Corte, in riferimento all’evento letale, riteneva attendibile la ricostruzione del fatto operata dal Tribunale, secondo la quale l’operaio E., nel mentre coadiuvava gli altri lavoratori nel lavoro di rimozione delle parti in ferro del fabbricato e delle passerelle di collegamento tra le due parti della Vela, tra l’altro raggruppando i materiali ferrosi che man mano si accumulavano in basso, ad un certo punto si trovava a sostare su una delle passerelle di collegamento posta all’ottavo piano proprio nel mentre tale passerella veniva lateralmente tagliata dai due “mastri” A. e G. (da identificarsi con certezza negli imputati G. e C.), coadiuvati dall’operaio AV..
La passerella precipitava in basso e con essa l’ E., la cui caduta al suolo veniva in parte attutita proprio dalla presenza al di sotto di lui della passerella crollata.
Tale ricostruzione, rileva la Corte, poggia essenzialmente sulla deposizione dell’operaio Av., che era presente proprio nel momento in cui avvennero il crollo del ballatoio e dell’operaio, che è stato molto preciso sul punto e che non aveva interesse alcuno a riferire al riguardo cose non vere. Poggia, per altro, anche su alcune risultanze di prova generica, in specie quelle evincibili dagli accertamenti medico legali (perizia autoptica prof. D. P.; Consulenza medicolegale di parte P.), secondo cui, in caso di caduta a precipizio dall’ottavo piano e non dalla passerella, le pur gravissime lesioni sarebbero state, in parte, diverse ed avrebbero dovuto ricomprendere lo scoppio degli organi interni.
La Corte, prima di passare all’esame delle singole posizioni processuali nella verifica, sulla base dei motivi di appello, della correttezza del giudizio di responsabilità operato dal giudice di primo grado, rilevava, sulla scorta degli accertamenti tecnici e delle relazioni dell’ispettorato del lavoro, che i lavori in corso erano eseguiti in totale violazione di numerose norme antinfortunistiche, tra le quali tutte quelle mirate a prevenire le cadute accidentali nel vuoto, visto che nell’edificio in corso di smantellamento, ormai privo di balconi, degli ascensori e degli altri accessori, i ballatoi e tutti i punti di passaggio non avevano parapetti od altre misure idonee a prevenire il rischio di caduta dall’alto nel vuoto. Quanto allo specifico lavoro cui era addetto l’operaio E., esso avveniva senza alcuna cautela tesa a scongiurare il pericolo di caduta nel vuoto degli operai addetti al taglio delle passerelle, costretti allo scopo a sporgersi dalle finestre più vicine prive oramai di protezione e ad operare con cannelli ossiacetilenici muniti di rudimentali prolunghe, e soprattutto senza alcuna cautela tesa ad evitare le pericolose vibrazioni che il violento impatto col suolo dopo la caduta dall’alto dei materiali metallici avrebbe determinato. Le passerelle prima di essere tagliate non venivano, come previsto dalla normativa antinfortunistica, imbragate e portate gradualmente in basso con l’apposita autogrù, e come stabilito, per altro, dal piano di sicurezza all’allegato 2, pag. 17, imposto dall’ente appaltante alle ditte aggiudicatarie, ma venivano tagliate e lanciate direttamente dall’alto al suolo. Venendo alle singole posizioni processuali, la Corte ritiene certa la responsabilità dei due amministratori della Maciocia s.r.l. e della Edil Soccavo s.a.s. cui spettava l’obbligo di adottare quelle cautele e di vigilare perchè il piano di sicurezza venisse applicato; di poi, altrettanto ritiene indubbia la responsabilità del capocantiere S., per il quale si sottolineava che nella sua qualità, ed essendo, per altro, anche presente il giorno dei fatti sul posto di lavoro, avrebbe dovuto rendere ben edotto l’inesperto e neoassunto operaio dei rischi che quel tipo di lavoro comportava e delle cautele da adottare.
Quanto all’ing. R., redattore del Piano Operativo speciale, la Corte fa proprie le argomentazioni del giudice monocratico secondo le quali l’imputato rivestiva la qualifica, oltre che di responsabile del servizio di prevenzione e Protezione per l’impresa Maciocia, di direttore tecnico di cantiere della detta impresa, quindi una funzione dirigenziale che gli avrebbe imposto non solo la predisposizione delle misure di sicurezza ma anche la vigilanza sull’attuazione della stessa e la messa in pratica di direttive ai lavoratori al riguardo, condotte queste che dall’intera istruttoria dibattimentale il R. non risulta assolutamente avere tenuto.
Con un unico atto M.F., S.A. ed E. F., a mezzo dell’avv. Fusco Giuseppe, propongono ricorso per Cassazione denunciando:
1. Violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità in relazione all’art. 157 c.p.p., e segg. e art. 178 c.p.p., lett. c), con riferimento alla nullità dell’udienza preliminare.
2. Nullità della sentenza di primo grado per inosservanza di norma processuale stabilita a pena di nullità (art. 606 c.p.p., lett. c), in relazione all’art. 521 c.p.p.).
3. Erronea applicazione di norme penali (art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione al D.P.R. n. 547 del 1955; illogicità e contraddittorietà della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. e).
4. violazione di norma penale e difetto di motivazione con riferimento all’art. 69 c.p., per essere stata rigettata la richiesta di dichiarare la prevalenza delle attenuanti generiche con la generica formula che richiama la gravità delle condotte omissive.
R.R., a base del ricorso ha posto i seguenti motivi:
1) Carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, nonchè erronea applicazione della legge penale in relazione alla dichiarata responsabilità dell’imputato. In sostanza si eccepisce la nullità della sentenza per la sua incompatibilità logica con gli atti del processo. Rileva la Difesa che dagli stessi atti emerge che il R. non ha mai ricoperto, in relazione al cantiere ove venivano eseguiti i lavori di smantellamento delle parti di ferro dell’edificio da abbattere, alcun ruolo o mansione comportante obblighi in materia di sicurezza e da cui potesse derivare una sua responsabilità di carattere penale. Si deduce che la Corte d’Appello fa discendere la responsabilità dell’imputato dal ruolo formale rivestito in relazione al cantiere de quo, omettendo qualsiasi valutazione in ordine al ruolo dirigenziale svolto di fatto dallo stesso, e cade in una confusione non solo lessicale ma sostanziale con il richiamo alle cariche di direttore tecnico dell’impresa e di direttore tecnico del cantiere senza alcuna distinzione, senza che chi legge riesca a comprendere se il R. rivestisse una sola o entrambe le cariche e se, soprattutto, l’obbligo di vigilanza fosse riconducibile all’uno o all’altro ruolo.
Tale vizio di motivazione si evince dal testo medesimo del provvedimento, ma esso è ancora più macroscopico se si verificano gli atti processuali a disposizione dei giudici di merito che sono stati stravolti nel loro contenuto intrinseco.
Inoltre, il vizio motivazionale si ravvisa anche in ordine ad un presunto ruolo di fatto ricoperto dal R. con riferimento al cantiere ove si è verificato l’incidente. Dall’esame degli atti processuali si evince non solo l’assenza di qualsiasi prova sicura, ma l’assenza di qualsivoglia prova in ordine sia all’attribuzione di funzioni specifiche in materia antinfortunistica, sia ad una qualsiasi ingerenza dell’organizzazione del cantiere.
Circostanza questa confermata dall’ing. Ma.Ed., direttore tecnico del cantiere, nel corso del suo esame dibattimentale, il quale ha dichiarato che il M. gli riferì che l’attività di rimozione del ferro era “ un’attività che lui stava procedendo nell’esecuzione...”. La circostanza, in fatto, che, come prassi della impresa Maciocia, in relazione ai diversi cantieri aperti dalla ditta vi era sempre un direttore di cantiere, mentre il ruolo del R. era sempre e solo quello di responsabile della sicurezza, è confermata dalle testimonianze di V.R. e di P.G., dipendenti della ditta Maciocia. Viene altresì confutata sul punto la testimonianza di M.S., operaio della Maciocia, che ha dichiarato di aver visto spesso il R. in cantiere, su cui i giudici di merito hanno fondato il convincimento di colpevolezza del ricorrente; tale testimonianza, si assume, non è assolutamente dimostrativa dell’espletamento da parte del predetto di funzioni dirigenziali, sia pure di fatto, in materia antinfortunistica.
1) difetto di motivazione in relazione al mancato riconoscimento del giudizio di prevalenza delle concesse attenuanti generiche. Il semplice richiamo alla gravità delle condotte omissive degli imputati è non è bastevole, perchè accomuna la posizione di soggetti con ruoli e responsabilità ben distinte. La posizione del R., mero responsabile del servizio di prevenzione e protezione, non può essere parificata a quella dei datori di lavoro delle due ditte costituenti l’ATI.
DIRITTO
I motivi addotti, posti a base dei ricorsi, sono in parte inammissibili, in quanto non consentiti in sede di legittimità, perchè concernono differenti valutazioni di risultanze processuali ed allegazioni di fatto, ed in parte infondati, sicchè i ricorsi devono essere tutti rigettati con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
1. 1 In ordine al primo motivo, posto a base del ricorso presentato nell’interesse di M.F., S.A. e E. F., si è esposto che M.F. in data 5.9.97 aveva eletto domicilio presso la sede della sua impresa sita in (OMISSIS). L’avviso ex art. 415 bis c.p.p., e di fissazione dell’udienza preliminare innanzi al G.i.p. del tribunale di Napoli gli furono notificati, non a mani proprie, in via (OMISSIS). L’eccezione ha integrato uno specifico motivo di appello ritenuto infondato dalla Corte di merito, decisione questa censurata dalla Difesa dei ricorrenti essendo ritenuta errata con la conseguenza richiesta di annullamento della sentenza sia nei confronti del M. che dei coimputati E. e S. stante la connessione tra le reciproche posizioni (art. 12 c.p.p., lett. a). Infatti, si sostiene, non di irregolarità di notifica si tratta, ma di irritualità della citazione in quanto a seguito della elezione di domicilio a norma dell’art. 161 c.p.p., la notifica in luogo diverso si risolve sostanzialmente in una omessa citazione dell’imputato e, quindi, nella nullità di natura generale ex art. 178 c.p.p., lett. C), in quanto all’imputato non è stato assicurato - in mancanza della prova della sua conoscenza del contenuto dell’atto notificato - il diritto di intervenire nelle fasi processuali della chiusura delle indagini, prima e dell’udienza preliminare poi.
Alla questione, come già evidenziato, sottoposta all’esame della Corte d’Appello, è stata data esaustiva e corretta risposta con il puntuale richiamo della giurisprudenza delle S.U. di questa Corte, chiamata a dirimere alcuni contrasti giurisprudenziali in relazione ad una vicenda analoga, proprio con riferimento al quesito se ritenere in tali casi una omissione della notificazione o una sua irregolarità. Risolvendo il quesito in quest’ultimo senso, le S.U., con sentenza n. 119 del 27.10.2004, Rv. 229540, hanno affermato il principio secondo cui “la notificazione della citazione dell’imputato effettuata presso il domicilio reale a mani di persona convivente, anziché presso il domicilio eletto, non integra necessariamente una, ipotesi di “omissione” della notificazione ex art. 179 c.p.p., ma da luogo, di regola, ad una nullità di ordine generale a norma dell’art. 178 c.p.p., lett. c), soggetta alla sanatoria speciale di cui all’art. 184 c.p.p., comma 1, alle sanatorie generali di cui all’art. 183 e alle regole di deducibilità di cui all’art. 182, oltre che ai termini di rilevabilità di cui all’art. 180 c.p.p., sempre che non appaia in astratto o risulti in concreto inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte del destinatario, nel qual caso integra invece la nullità assoluta ed insanabile di cui all’art. 179 c.p.p., comma 1 rilevabile dal giudice di ufficio in ogni stato e grado del processo”.
Per il caso di specie non è stato dedotto, o meglio, non è stata fornita alcuna prova che la notificazione, comunque effettuata, presso la abitazione del M., non abbia comportato una conoscenza in concreto dell’atto (in effetti la mancata conoscenza è solo enunciata nei motivi del ricorso), né essa è apparsa in astratto o risultata in concreto inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte del destinatario; di conseguenza, come già evidenziato dalla Corte partenopea, in assenza di una deduzione della eccezione di nullità innanzi al G.I.P. e poi innanzi al Tribunale (davanti al quale era stato citato regolarmente) si è verificata la sanatoria della notificazione irregolare.
1.2. Con il secondo motivo gli imputati hanno dedotto la nullità della sentenza di primo grado per violazione dell’art. 521 c.p.p., ritualmente eccepita con l’atto di appello, ma disattesa dalla Corte di merito in quanto” non essendo nell’imputazione precisato, nella descrizione del sinistro, che l’ E. stesse gettando i materiali ferrosi da uno sporto della facciata dell’ottavo piano come dice la difesa correttamente il G.M. ha ritenuto quella emersa in dibattimento una mera specificazione del fatto contestato”.
Rileva la Difesa che, in altri termini, la Corte, pur riconoscendo che, nel corso del dibattimento, le modalità dell’infortunio sono state individuate nello scivolamento dell’ E., con conseguente caduta al suolo, da una passerella sulla quale si trovava accidentalmente e che, a seguito del taglio del punto di aggancio della stessa alla facciata, era precipitata al suolo, ha ritenuto di dover rigettare l’eccezione sol perchè nel capo di imputazione, secondo l’interpretazione datane, non era indicata una diversa, rispetto a quella emersa nel corso del dibattimento, modalità di esecuzione dell’ attività affidata all’ E. e della caduta al suolo e cioè non era specificato che l’ E. stesse gettando i materiali ferrosi da uno sporto della facciata dell’ottavo piano.
Si rimarca che la modalità della caduta, assunta nel capo di imputazione, non si presta ad equivoci nè ad interpretazioni alternative: l’ E. al momento dell’infortunio si sarebbe trovato vicino allo sporto all’ottavo piano aperto e privo di protezione e/o sbarramenti idonei intento a buttare giù residui ferrosi già demoliti e/o pezzi di arredo.
Dalla istruttoria dibattimentale è invece emerso che la caduta dell’ E. è avvenuta mentre, per cause non individuate, si trovava sulla passerella che stava per essere dissaldata dalla parete con cannello ossiacetilenico precipitando, poi, al suolo con l’ E. che scivolando - durante la caduta libera della passerella - finiva sulla montagna di rottami ferrosi da lui e da altri operai in precedenza buttati dallo sporto senza protezione sito all’ottavo piano.
Mette in evidenza la Difesa che non si riesce a comprendere per quale ragione e/o motivazione inespressa la sostanzialmente diversa ricostruzione dell’ infortunio emersa nel corso del dibattimento e posta a base della condanna possa essere definitiva” una mera specificazione del fatto contestato”.
Tale sostanziale diversità, si eccepisce, tra il fatto “ enunciato nell’imputazione” e quello per il quale è intervenuta condanna determina la nullità della sentenza (art. 522 c.p.p.).
Ritiene il Collegio che l’assunto difensivo è destituito di fondamento.
Invero, l’art. 521 c.p.p., al comma 1, consente al giudice di dare al fatto una diversa qualificazione giuridica, ma il capoverso dello stesso articolo impone la trasmissione degli atti al pubblico ministero qualora accerti la diversità del fatto, senza alcuna possibilità di prosciogliere o assolvere da quello originariamente contestato. Rilevata, infatti, la diversità del fatto emerso nel dibattimento, il giudice perde automaticamente la disponibilità del procedimento e, dunque, non può pronunciarsi su quello originariamente contestato: un provvedimento in tal senso sarebbe manifestamente abnorme, precludendo la possibilità dell’inizio di una nuova azione penale. In sostanza, il principio della necessaria correlazione tra il fatto storico contestato e quello ritenuto in sentenza trae il suo fondamento dall’esigenza di tutela del diritto di difesa dell’imputato. Si deve evitare, infatti, che questi possa essere condannato per un fatto in relazione al quale non ha avuto modo di difendersi, presentando esso connotati materiali del tutto difformi da quelli descritti nel decreto che ha disposto il giudizio.
E’, però, indirizzo giurisprudenziale, oramai costante, della Suprema Corte quello secondo cui la violazione del principio in parola si concretizza quando vi è mutamento del fatto, determinato da una trasformazione radicale nei suoi elementi essenziali della fattispecie concreta in cui si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, si da pervenire a un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa: ne consegue che la violazione del diritto di difesa, cui preside la regola in esame, non sussiste quando l’imputato, nel corso del processo, si sia trovato comunque nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (V. da ultimo: Sez. 3^, sentenza n. 35225 del 28.06.2007, Rv. 237517, imp. Di Martino; Sez. 6^ sentenza n. 8987 del 31.10.2007, Rv. 235924, imp. Cicoria; Sez. 4^ sentenza n. 10103 del 15.01.2007, Rv. 226099, imp. Granata; Sez. 6^ sentenza n. 34879 del 10.01.2007, Rv. 237415, imp. Sartori; Sez. 3^ sentenza n. 818 del 6.12.2005, Rv. 233257, imp. Pavanel).
In buona sostanza, la correlazione tra accusa e decisione non va intesa in senso meccanicistico e formale, si deve ritenere, come prima evidenziato, che vi sia comunque tale correlazione tutte le volte che l’imputato ha avuto un’effettiva possibilità di difesa in ordine a tutte le circostanze rilevanti del fatto, che siano emerse nel giudizio.
Per il caso che ci occupa l’impostazione originaria del fatto, nei suoi elementi caratterizzanti, è stata recepita dal Tribunale e poi dalla Corte di merito, sebbene, effettivamente si sia evidenziata, nell’accadimento del fatto, una circostanza non specificamente contestata. Che l’imputato abbia avuto modo di difendersi è fuori di dubbio, tenuto conto che la stessa Difesa evidenzia che “la vera posizione della vittima” al momento del sinistro è emersa a seguito della istruttoria dibattimentale. Del resto i comportamenti colposi contestati in rubrica, comunque, afferiscono alla omessa predisposizione in concreto di misure atte a prevenire l’infortunio che si è poi verificato, ciò indipendentemente dal fatto che E.G. si trovasse vicino allo sporto all’ottavo piano o sulla passerella che stava per essere dissaldata.
1.3. Con riguardo al terzo motivo dei ricorsi proposti da M., S. ed E. si è sostenuto che la Corte di Appello di Napoli ha ritenuto la sussistenza di violazione di norme antinfortunistiche, così accreditando l’originaria modalità del fatto, in quanto la passerella di collegamento tra i vari appartamenti (non, come è scritto in sentenza, tra vari fabbricati) era protetta su tutti i lati come, peraltro, è logico immaginare, attesa la sua destinazione: sulla parte frontale esterna e sulla parte laterale terminale si trovavano pareti metalliche fisse di protezione, mentre la parte interna (verso la facciata e l’accesso agli appartamenti) il lato di attacco al pianerottolo erano naturalmente protetti dalle pareti del fabbricato e dall’ acceso sul pianerottolo proteso su tutti i lati dalla struttura stessa del fabbricato (facciata frontale e laterale).
Ne consegue che tali violazioni non possono certamente riferirsi alla passerella sulla quale l’ E. si trovava al momento dell’incidente e che certamente - fino al momento del suo distacco dalle pareti di aggancio alla facciata del fabbricato e di squilibrio sul lato aperto - era adeguatamente protetta su tutti i lati senza alcun rischio di caduta nel vuoto.
La sentenza, pertanto, per i ricorrenti sarebbe affetta da illogicità in quanto, da un lato, accredita la diversa modalità dell’infortunio emersa nel corso del dibattimento e, dall’altro, richiama violazioni antinfortunistiche che nulla hanno a che vedere proprio con la ricostruzione dibattimentale della caduta nè sotto il profilo fattuale nè sotto quello del nesso di causalità.
Il Collegio rileva che assolutamente il dedotto vizio di motivazione è infondato considerando che, accertata la posizione della vittima al momento della verificazione dell’infortunio, prima il Tribunale e poi la Corte di merito hanno messo in luce la carenza di quelle misure antinfortunistiche, che hanno determinato il decesso dell’ E., oggetto di specifica contestazione (V. rubrica al paragrafo 1, cpv. 3), laddove è emerso che le passerelle prima di essere tagliate non venivano, come previsto dalla normativa antinfortunistica, imbragate e portate gradualmente in basso con l’apposita autogrù, e come stabilito, per altro, dal piano di sicurezza all’allegato 2, pag. 17, imposto dall’ente appaltante alle ditte aggiudicatarie, ma venivano tagliate e lanciate direttamente dall’alto al suolo.
Dunque, evidenzia la Corte Partenopea, riprendendo una osservazione del giudice monocratico, se prima del taglio la passerella metallica fosse stata imbragata per poi essere portata in basso dalla gru, l’ E. si sarebbe certamente avveduto che il taglio laterale del supporto su cui poggiava i piedi stava per avvenire e avrebbe potuto spostarsi e scongiurare la caduta e questa sarebbe, in ogni caso, stata molto meno violenta, visto che lo scopo di tale prudenziale manovra era tra l’altro quello di assicurare una discesa più graduale e meno repentina verso il suolo.
1. 4. Quanto al punto 4), si rimanda la trattazione della censura unitamente a quella sollevata con il ricorso di R.R. al punto 2), avendo esse contenuto analogo.
2. 1. L’esame dei motivi, posti a base del ricorso del R. R., solo apparentemente si presenta più complesso, in considerazione della approfondita disamina dell’istruttoria dibattimentale di primo grado e della motivazione della sentenza impugnata con puntuali e specifici riferimenti ad atti del processo.
Premesso che le doglianze proposte dal R. sono affidate a motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate persuasivamente dalla Corte di merito, è opportuno riportare in maniera più dettagliata le argomentazioni difensive.
La Difesa rileva che se la Corte d’Appello parte da una premessa corretta poi giunge ad una conclusione del tutto errata: effettivamente il R., come si legge in sentenza, al momento della presentazione per conto del consorzio di imprese (ATI Maciocia mp; amp; C. s.r.l. - Edil Soccavo s.a.s.) di tutta la documentazione di partecipazione al bando di gara, svolgendo il ruolo di direttore tecnico in generale dell’impresa Maciocia, nel Piano di sicurezza da lui predisposto, indicava se stesso oltre che “Responsabile del servizio di prevenzione e protezione” anche quale “Direttore tecnico” ma ciò solo al fine di cui sopra e non si era mai indicato come direttore tecnico del cantiere. Di fatti, a seguito dell’aggiudicazione, da parte del Comune di Napoli, al consorzio dell’appalto, in data 11 agosto 1997 avveniva la consegna parziale dei lavori con relativa redazione di verbale nel quale si indicava (al punto 4) che il Piano di sicurezza era quello elaborato e presentato nella documentazione per la gara di appalto ed (al punto 6) si conferma che il direttore tecnico di cantiere è l’ing. Ma.Ed.. Deduce la Difesa che, nonostante tale esplicita indicazione di ruoli, sia il G.M. che la Corte d’Appello, recependo le giustificazioni difensive del Ma. per escludere la sua responsabilità e scaricarla sul R., evidenziano che l’istruttoria aveva chiarito, anche documentalmente, che il Ma. aveva accettato l’incarico in relazione alle opere di abbattimento degli edifici a mezzo di esplosivo e non anche in relazione alle opere preliminari, in riferimento alle quali si ricollega la morte dell’ E.. La Difesa del ricorrente sul punto richiama la nota datata 14.08.1997, a firma del Ma., dalla quale si evince che lui stesso si autodefinisce, oltre che “Direttore dei lavori” anche “Responsabile del cantiere”, non lasciando alcun dubbio circa qual era la sua vera funzione all’interno del cantiere. Sul punto si richiama anche l’atto di accettazione, sottoscritto dal Ma. in data 12.08.1997, ed autenticato in data 18.08.1997, ma già comunicato subito dopo la sottoscrizione tant’è che di tale accettazione si fa riferimento nel richiamato verbale di consegna dei lavori del 14.08.1997, con il quale egli accetta l’incarico “di direttore dei lavori”. Questa dizione viene dalla Difesa ritenuta erronea in quanto tale carica viene nominata dal committente, cioè nel caso di specie dal Comune di Napoli, e non dall’appaltatore, per cui si ritiene che essa debba essere intesa come “direttore del cantiere”, tale interpretazione viene data dal C.T.U.. nominato dalla Procura ing. D.. La Difesa rimarca che dall’atto di accettazione non vi era alcuna limitazione nell’accettazione dell’incarico di “ direttore dei lavori”, ovvero di “direttore tecnico del cantiere” da parte del Ma. in quanto emerge, da una semplice lettura di siffatto atto che lui stesso aveva dichiarato di essere affiancato per la sola consulenza nell’uso di esplosivi per la demolizione dall’ing. Z.B.. Nè può assumere valore la dichiarazione inviata all’arch. ma., direttore dei lavori del Comune, dal Ma., in data 4.11.1997, cioè dopo il verificarsi dell’infortunio de quo, con cui evidenzia che egli è direttore dei lavori dell’impresa con riferimento alle sole opere di demolizione degli edifici a mezzo di esplosivi. Circostanza questa, come argomentato, smentita dai documenti richiamati e dal “Capitolato speciale d’appalto” predisposto dal Comune di Napoli al fine di specificare l’oggetto dei lavori da eseguire, da cui si rileva che le opere di rimozione del ferro facevano parte integrante dell’appalto in questione quale operazione preliminare alla demolizione vera e propria dei due edifici. Dunque, la Difesa conclude sul punto che senza ombra di dubbio, indipendentemente dalle diverse qualifiche di volta in volta auto-assegnatesi, direttore-tecnico responsabile del cantiere con riferimento all’oggetto complessivo dell’appalto, in relazione a tutte le diverse fasi di lavorazione espressamente previste, era solo ed esclusivamente l’ing. Ma., avendo il R. rivestito la qualifica di direttore tecnico dell’impresa in generale e mai del cantiere specifico, qualifica per di più assunta ai soli fini della presentazione del piano di sicurezza. Ciò chiarito, la Difesa rileva come la Corte d’Appello abbia continuato a confondere i ruoli di “direttore tecnico dell’impresa” con quello del tutto differente e distinto di “direttore tecnico del cantiere”.
Tornando poi ad esaminare la qualifica formale certamente rivestita dal R. di “direttore tecnico dell’impresa” si ribadisce che essa non comporta automaticamente la possibilità di riconoscere in capo al medesimo la responsabilità anche per quanto si è verificato in relazione ad uno specifico cantiere. Si richiama sul punto la copiosa giurisprudenza di questa Corte relativamente alla responsabilità dei dirigenti in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, secondo cui solo in presenza di una delega specifica da parte dell’imprenditore al dirigente con il trasferimento di tutti i compiti di natura tecnica, con le più ampie facoltà di iniziativa e di organizzazione anche in materia di prevenzione degli infortuni, vi è l’esonero, in caso di incidente, da responsabilità penale del datore di lavoro.
Orbene, non c’è chi non veda come i motivi di ricorso, testè riportati, appaiono incentrati sulla contestazione dell’apprezzamento delle risultanze processuali compiuta dal tribunale fatto proprio dalla Corte d’Appello: essi, risolvendosi in censure in fatto della sentenza impugnata, sono preclusi in questa sede di legittimità (art. 606 c.p.p., comma 3).
E’ indubbio lo sforzo argomentativo profuso per far rientrare nella previsione normativa dell’art. 606 c.p.p., lett. e), quella che è una mera valutazione del fatto.
Se la ricostruzione dei fatti affonda le sue radici nella valutazione critica delle prove raccolte nella istruttoria dibattimentale e se è innegabile che la stessa, così come proposta dai giudici di merito appaia logicamente corretta, non potendo davvero sostenersi che sia manifestamente illogica, le conclusioni, sul piano del diritto, sono scontate, se si riflette sulla costante giurisprudenza di questa corte quanto alle caratteristiche e ai limiti del giudizio di legittimità.
L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione - così quella giurisprudenza - ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore a riscontrare l’esistenza di un apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sottolineare il suo convincimento o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali.
L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile - così, ancora - deve essere di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici.
E, infine: nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti, a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di avere tenuto presente ogni fatto decisivo: in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata. Se la censura di mancanza o di non adeguata motivazione in ordine alla sussistenza dei presupposti di fatto è, certamente, manifestamente infondata, la stessa, in ogni caso, è priva del requisito della specificità. L’applicazione degli esposti principi al caso di specie impone il rigetto del ricorso.
2. 2. La Corte d’Appello ha invero indicato con puntualità, chiarezza le completezza tutti gli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento della decisione adottata, confutando, in maniera analitica, astrattamente persuasiva e scevra da vizi logici, la diversa valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dalla Difesa.
In sostanza, sotto tale ottica, la questione (specifico motivo del ricorso) se l’imputato abbia o meno esercitato di fatto, con riferimento al cantiere ove si è verificato l’incidente, il ruolo di direttore del cantiere essendo chiaramente una questione di fatto ( i giudici hanno basato il proprio convincimento sulle dichiarazioni testimoniali - ma. - nonchè sulla documentazione, per quanto riguardava la circostanza che il Ma. aveva accettato l’incarico di direttore di cantiere in relazione alle opere di abbattimento degli edifici a mezzo di esplosivo e non anche in relazione alle opere preliminari), risolverebbe da sola, in maniera assorbente, in senso negativo l’accoglimento del ricorso; ma, per completezza motivazionale, in ordine a tutte le questioni su riportate, relative alla qualifica “formale” ricoperta dal R., considerando i riferimenti alla documentazione in atti (per altro allegata in copia) per escludere un “travisamento dei fatti” che, sostanzialmente si addebita alla Corte d’Appello, si osserva quanto segue.
2. 3 I giudici di secondo grado fanno risalire la responsabilità del R., in ordine al reato contestato, oltre che per il ruolo di direttore tecnico dell’impresa e per quello di direttore di cantiere, ricoperto di fatto, anche per la violazione di un obbligo di vigilanza a lui ascrivibile in qualità di responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Per il ricorrente è evidente sul punto la nullità della sentenza per violazione di legge e cioè del D.Lgs. n. 626 del 1994, che esclude in capo al responsabile del servizio di prevenzione e protezione qualsiasi tipo di responsabilità derivante dall’inadempimento delle obbligazioni indicate e richieste nel medesimo decreto, il cui ruolo, come anche affermato dalla giurisprudenza di legittimità, è meramente consultivo (Cass. Sez. 4^ sent. n. 47363 del 10.11.2005, Oberrauch). Innanzitutto, il richiamo alla citata sentenza di questa Corte non pare afferente atteso che essa affronta la questione della responsabilità del datore di lavoro in materia di infortuni sul lavoro affermando il principio che questi non può andare esente da responsabilità, sostenendovi esservi stata una delega di funzioni a tal fine utile, per il solo fatto che abbia provveduto a designare il responsabile del servizio prevenzione e protezione, trattandosi di figura, questa, obbligatoriamente prescritta dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 8, per l’osservanza di quanto previsto dal successivo art. 9, ma non confondibile con quella, del tutto facoltativa ed eventuale, del dirigente delegato all’osservanza delle norme antinfortunistiche ed alla sicurezza dei lavoratori.
La questione, poi, della non responsabilità, per violazione delle norme antinfortunistiche, del responsabile del servizio di prevenzione e di protezione è stata posta e risolta dalla giurisprudenza di questa Corte (V. fra tutte: Sez. 4, sentenza n. 11351 del 20.04. 2005, Rv. 233658, imp. Stasi ed altro).
Dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 8, commi 3 e 10, emerge con certezza - come osserva la dottrina - che “i componenti del servizio aziendale di prevenzione, essendo considerati dei semplici ausiliari del datore di lavoro, non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, proprio perchè difettano di un effettivo potere decisionale”. “Essi sono soltanto dei consulenti e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni, come pacificamente avviene in qualsiasi altro settore dell’amministrazione dell’azienda - ad esempio, in campo fiscale, tributario, giuslavoristico - vengono fatti propri dal vertice che li ha scelti sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato e che della loro opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario”. “Il fatto, però, - ed è questa la doverosa puntualizzazione - che il D.Lgs. n. 626 del 1994 abbia escluso la sanzionabilità penale o amministrativa di eventuali comportamenti inosservanti dei predetti componenti interni o esterni del servizio aziendale di prevenzione e protezione, non significa che questi componenti possano e debbano ritenersi in ogni caso totalmente esonerati da qualsiasi responsabilità penale e civile derivante da attività svolte nell’ambito dell’incarico ricevuto”.
Il che vuoi dire che “occorre distinguere nettamente il piano delle responsabilità prevenzionali, derivanti dalla violazione di norme di puro pericolo, da quello delle responsabilità per reati colposi di evento, quando, cioè, si siano verificati infortuni sul lavoro o tecnopatie”.
Ne consegue che il responsabile del servizio di prevenzione e di protezione qualora, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionale, risponderà insieme a questi dell’evento dannoso derivatone, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale che può assumere anche un carattere addirittura esclusivo.
Ciò precisato, deve condividersi, peraltro, con alcune ulteriori puntualizzazioni, quanto, sulla responsabilità, la corte di merito ha posto in risalto in sentenza, nella quale ha scritto che le passerelle, una volta tagliate, erano lanciate direttamente dall’alto al suolo e non venivano, come previsto dalla normativa antinfortunistica, imbragate e portate gradualmente in basso con l’apposita autogrù, e come stabilito, per altro, dal piano di sicurezza all’allegato 2, pag. 17, imposto dall’ente appaltante alle ditte aggiudicatarie, redatto dal R..
E poichè l’imputato, fatto pacifico, era responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ciò comportava la necessità, secondo ordinaria diligenza, di verificare e controllare i luoghi di lavoro e di segnalare, dunque, al datore di lavoro le modalità di taglio delle passerelle non conforme a quanto previsto dal piano di sicurezza.
Rimasto provato, sulla scorta di dichiarazioni testimoniali, che egli frequentava il cantiere aveva il dovere di accorgersi delle modalità con cui le passerelle venivano buttate giù, tanto era il fragore, le vibrazioni che la loro caduta al suolo provocava. Modalità queste, certamente sbrigative, utili per risparmiare tempo e, quindi, danaro ma certamente non consentite.
3. Relativamente alle censure aventi ad oggetto la quantificazione della pena ed , in particolare, il difetto di motivazione in relazione al mancato riconoscimento del giudizio di prevalenza delle applicate circostanze attenuanti generiche, osserva il Collegio che, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Corte non solo ammette la c.d. motivazione implicita (Cass. sez. 6^ 22 settembre 2003 n. 36382 n. 227142) o con formule sintetiche (tipo “si ritiene congrua” vedi Cass. sez. 6^ 4 agosto 1998 n, 9120 rv.
211583), ma anche, quando impone un obbligo di motivazione espressa per la concessione di un’attenuante negata dal primo giudice o per l’esclusione di un’aggravante, poichè esiste un’esplicita deduzione della censura in appello, presupposto imprescindibile per l’ammissibilità della doglianza in ricorso (Cass. sez. 1^, 30 giugno 1988 n. 7707 rv. 178767, che recepisce un principio pacifico sotto il vigore del precedente e dell’attuale codice di rito), oppure perchè si è effettuata una differente qualificazione di un fatto o si è ritenuto insussistente un reato (Cass. sez. 5^, 29 dicembre 1999 n. 14745 rv. 215198), afferma che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 c.p., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Cass. sez. 3^ 16 giugno 2004 n. 26908 rv. 229298).
Per il caso di specie è da escludere che per tutti gli imputati il mancato giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sia frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico, atteso che lo specifico richiamo alla “gravità delle condotte” viene posto come valutazione preclusiva alla richiesta difensiva.
Al rigetto del ricorso segue la condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.
Roma, 23.4.2008. Deposito 20.6.2008