FLEPAR Inail formula proposte operative per una PA a servizio di cittadini ed imprese, a sostegno del mondo impresa-lavoro e delle PMI. Sviluppa le competenze interdisciplinari dei professionisti pubblici per riforme: PA, sicurezza sul lavoro, giustizia, legalità, prevenzione della corruzione.

Ad attività sindacale FLEPAR affianca una intensa attività propositiva e di studio, fornendo contributi in materie strettamente correlate ai compiti istituzionali Inail: si pone come un laboratorio di idee e progetti caratterizzato da un approccio concreto, frutto dell'esperienza diretta sul campo.

Associazione apolitica e senza scopo di lucro, con carattere sindacale, col fine di tutelare interessi giuridici, economici, e funzione, professionalità, dignità e autonomia dei Professionisti Inail.
Interlocutore sindacale dell'Amministrazione, siede con piena legittimazione a tutti i tavoli sindacali.

Nel corso della storia di FLEPAR Inail abbiamo compreso che non sempre è sufficiente avere una buona idea, svilupparla e proporla nelle giuste sedi ma è altrettanto importante la modalità con la quale questa iniziativa viene veicolata e comunicata. Ci siamo resi conto che una comunicazione adeguata e moderna costituisce un valore aggiunto.

Cass. pen. sez. IV, 27 marzo 2009, n. 18998

Cass. pen. sez. IV, 27 marzo 2009, n. 18998

La sentenza si segnala in particolare per i seguenti enunciati:

… In altri termini, l’errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori non é invocabile, non solo per la illiceità della propria condotta omissiva, ma anche per la mancata attività diretta ad evitare l’evento, imputabile a colpa altrui, quando si é, come nel caso “de quo”, nella possibilità in concreto di impedirlo.

E’ il cosiddetto “doppio aspetto della colpa”, secondo cui si risponde sia per colpa diretta sia per colpa indiretta, una volta che l’incidente dipende dal comportamento dell’agente, che invoca a sua discriminante la responsabilità altrui…

(OMISSIS)

FATTO E DIRITTO

Con sentenza del 6/7/2005, la Corte di Appello di Milano confermava la sentenza di condanna emessa il 30/4/2004 dal Tribunale di Voghera nei confronti di T.C., riconosciuto colpevole della contravvenzione di cui al D.P.R. n. 164 del 1956, artt. 70 e 77 per non avere, quale direttore e delegato alla sicurezza dello stabilimento “Valdata” di (OMISSIS), predisposto o fatto predisporre idonei sottopalchi di protezione o elementi di ripartizione del carico sui lucernai del tetto di detto stabilimento, al fine di evitare cadute dall’alto degli operai che ivi si recassero per lavori di manutenzione dei canali di gronda (capo B), nonché del delitto di omicidio colposo perché, nella spiegata qualità, per colpa e violazione delle suddette norme antinfortunistiche, affidando al lavoratore M.M. lavori di manutenzione dei canali di scolo e delle gronde sul tetto di un capannone, cagionava al predetto, a seguito della caduta dall’altezza di otto metri, avvenuta il (OMISSIS) per il cedimento sotto il suo peso di un lucernaio in vetroresina, lesioni personali gravissime, cui conseguiva il decesso (capo A).

Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione, per mezzo del comune difensore, sia l’imputato, sia, nella qualità di responsabile civile, la società “Valdata s.r.l.”, quest’ultima in difesa dei suoi interessi civilistici, ritenuti compromessi dalla condanna, in solido con il T., al risarcimento dei danni ed al pagamento immediato della provvisionale in favore delle parti civili costituite.

Entrambi i ricorrenti, sostanzialmente ripropongono le stesse argomentazioni difensive dedotte in sede di appello, ma disattese dai giudici di secondo grado, sicché é d’uopo qui richiamarne il contenuto essenziale, al fine di dare ad esse una risposta pertinente, ovviamente contenuta entro i limiti del sindacato di legittimità.

Le deduzioni difensive si possono, per comodità di sintesi, raggruppare essenzialmente in due punti: il primo contiene la critica alla ritenuta sussistenza dell’ordine impartito dal direttore al M. di salire sul tetto per eseguire lavori di pulitura dei canali di scolo, ritenuti causa delle infiltrazioni di acqua nel capannone dello stabilimento, sul rilievo che al M., in quanto operaio meccanico, competesse solo l’esecuzione della manutenzione dei macchinari in base ad un contratto di appalto stipulato con la società “Valdata”, con la conseguenza che il T., in quanto committente, aveva solo il dovere di segnalare all’appaltatore gli eventuali rischi connessi al lavoro appaltato, ma non anche l’obbligo di fornirgli le attrezzature tecniche per garantirgli la sicurezza, che compete invece al lavoratore autonomo, com’era il M., la cui iniziativa di salire sul tetto doveva, quindi, ritenersi avulsa dagli obblighi del contratto di appalto e, comunque, non pilotata dal direttore; il secondo punto riguarda la mancata presa in considerazione della tesi difensiva secondo la quale, nei casi di urgenza o di interventi di scarso rilievo, per prassi erano i capiturno che commissionavano al M. le manutenzioni meccaniche, onde, stante l’assenza dallo stabilimento del direttore al momento del fatto, poteva ricercarsi in altra persona, tra i capiturno, la paternità dell’ordine al medesimo operaio di portarsi sul tetto del capannone con secchio e raspino per effettuare la pulizia dei canali di scolo e delle grondaie.

Con specifico motivo, il responsabile civile, infine, sostiene che la conferma, da parte della Corte territoriale, della condanna al pagamento solidale della provvisionale, sarebbe illogica, dal momento che la società Valdata avrebbe già adempiuto a pagare alle parti civili delle somme di denaro, ampiamente satisfattive dei danni morali dalle predette patite.

Entrambi i ricorsi sono destinati alla declaratoria di inammissibilità.

Invero, le doglianze si pongono in stridente dissonanza con le corrette e coerenti argomentazioni offerte in motivazione dalla Corte di Appello di Milano, la quale non é stata omissiva nell’esame dei motivi attinenti al tema della responsabilità dell’imputato, perché le circostanze, di cui gli odierni ricorrenti ora lamentano la mancata presa in considerazione, non sono passate sotto silenzio, ma risultano essere state specificamente valutate.

La Corte di merito, infatti, si é convinta - e di tale convincimento ne ha persuasivamente spiegato le ragioni - che il T., quale direttore e delegato alla sicurezza dello stabilimento Valdata s.r.l., dovesse rispondere penalmente del delitto e della contravvenzione ascrittigli, in quanto l’accertata causa della morte dell’operaio M. era da collegare eziologicamente alla sua condotta omissiva colposa, tenuto conto che la posizione di garanzia nei confronti dell’operaio lo obbligava, ai sensi delle disposizioni antinfortunistiche di cui al D.P.R. n. 164 del 1956, artt. 70 e 77, ad avvertirlo specificamente dei rischi di caduta dall’alto connessi all’attività di pulitura dei canali di scolo e delle grondaie del tetto del capannone, ed a fornirgli, in ogni caso, le misure di protezione idonee ad evitare tali rischi.

Trattisi di rischi connessi ad attività di natura diversa che il M. svolgeva quotidianamente dalle ore 8 alle 12 e dalle 13,30 alle 17,30 nel luogo di lavoro, anche al di fuori del contratto di appalto per la manutenzione dei macchinari della società, in quanto é stato accertato, tramite plurime e conformi testimonianze, che la vittima, oltre al lavoro di meccanico, per il quale era obbligato per effetto del contratto di appalto, ivi svolgeva qualsiasi altro lavoro gli venisse richiesto, per arrotondare le sue entrate, tenuto conto che all’epoca era l’unico percettore di reddito in famiglia.

In relazione alla specifica doglianza sulla paternità dell’ordine di eseguire il lavoro sul tetto del capannone, va rilevato che i giudici di secondo grado hanno spiegato in modo convincente che l’infortunio mortale non sarebbe avvenuto, se fossero state approntate le opere idonee ad evitare le cadute dall’alto, le quali erano doverosamente imposte dalla legge anche al direttore responsabile della sicurezza di uno stabilimento, nel caso in cui, come quello di specie, si fosse avvalso, come quotidianamente avveniva da circa un anno prima dell’incidente, dell’opera di un lavoratore autonomo, per svolgere attività lavorativa retribuita mensilmente, per conto e alle dipendenze della società, di natura anche diversa da quella specificamente prevista nel contratto di appalto di manutenzione dei macchinali dell’azienda.

E’ stata ricondotta al T. la paternità dell’ordine al M. di salire sul tetto del capannone, sulla scorta dalla valutazione complessiva delle testimonianze rese dai compagni di lavoro della vittima sulla ordinaria prassi che le disposizioni di lavoro per il M. venivano date dal T., e dando particolare rilievo al fatto che proprio la stessa mattina, in cui avvenne l’incidente, il T. si era incontrato con il nominato operaio ed avevano discusso di un lavoro che costui si era impegnato a finire in giornata: quel lavoro, secondo i giudici di merito, era la pulizia del tetto e non altro, essendo certo che nessun altro e diverso ordine scritto é stato trovato e che, anche quel giorno, il M. aveva regolarmente lavorato presso lo stabilimento della società Valdata.

In riferimento alla subordinata censura, che si richiama alla condotta imprudente dei lavoratori, vittime dell’incidente, al fine di sostenere l’interruzione del nesso eziologico tra colpa dei datori di lavoro ed eventi infortunistici, reputa il Collegio che, nel confutarla, sia stata fatta dai giudici di merito corretta applicazione del principio generale secondo cui la colpa altrui non elide la propria.

E’ evidente, infatti, che la prospettazione di una causa di esenzione da colpa che si richiami alla condotta imprudente del lavoratore, non rileva allorché chi la invoca versa in re illicita, per non avere negligentemente impedito l’evento lesivo, che é conseguito, nella specie, dall’avere la vittima operato nella zona di lavoro, senza essere specificamente informato delle condizioni di pericolo esistenti nella zona circostante e senza essere stato protetto dalle opere provvisionali idonee ad evitare cadute dal tetto.

Tanto meno la causa esimente é invocabile, se la si pone, come nel caso di specie, alla base del proprio errore di valutazione, assumendo che il sinistro si é verificato non perché si sia tenuto un comportamento antigiuridico, ma sol perché vi sarebbe stata, dalla parte della vittima, l’anomala ed inopinata iniziativa di gironzolare sul tetto anche in corrispondenza di pericolosi lucernai.

Il rilievo difensivo, comunque, non serve a scagionare l’imputato, in quanto chi é responsabile della sicurezza del lavoro deve avere sensibilità tale da rendersi interprete, in via di prevedibilità, del comportamento altrui.

In altri termini, l’errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori non é invocabile, non solo per la illiceità della propria condotta omissiva, ma anche per la mancata attività diretta ad evitare l’evento, imputabile a colpa altrui, quando si é, come nel caso “de quo”, nella possibilità in concreto di impedirlo.

E’ il cosiddetto “doppio aspetto della colpa”, secondo cui si risponde sia per colpa diretta sia per colpa indiretta, una volta che l’incidente dipende dal comportamento dell’agente, che invoca a sua discriminante la responsabilità altrui.

A tali principi la Corte territoriale si é attenuta nel definire il ruolo avuto dal T. nella vicenda, ritenendo costui non esente da colpa.

E’ da osservare, peraltro, che la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Sussistendo questa ipotesi, é affermato dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte il principio giuridico che, in caso di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale esclusiva può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento.

Alla stregua di tale principio, la doglianza difensiva in esame non ha ragion d’essere, non potendosi l’eventuale imprudenza, profilabile nella condotta della vittima, considerarsi imprevedibile e tale da interrompere il rapporto di causalità con l’evento infortunistico, essendo questo nella specie riconducibile, anche e comunque, all’omissione, da parte dell’imputato, della condotta doverosa di impedire, per mezzo di informazione specifica e di predisposizione di apposite misure di protezione, che il M. alle sue dipendenze operasse sul tetto del capannone, per lavori di pulizia ordinatigli specificamente, in condizioni di pericolo di caduta dall’alto.

In riferimento, poi, al motivo specifico proposto in ricorso dalla società Valdata, quale responsabile civile, é sufficiente a dimostrane la manifesta infondatezza la considerazione che la pronuncia circa l’assegnazione di una provvisionale in sede penale ha carattere meramente delibativo e non acquista efficacia di giudicato in sede civile, mentre la determinazione dell’ammontare della stessa é rimessa alla discrezionalità del giudice del merito, che non é tenuto a dare una motivazione specifica sul punto.

Ne consegue che il relativo provvedimento, ed ovviamente anche la statuizione implicita nella conferma, in sede di appello, dell’integrale sentenza di condanna di primo grado, non é impugnabile per cassazione in quanto, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato, é destinato ad essere travolto, per il suo carattere di provvisorietà e per la sua natura meramente delibativa, dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento del danno.

Precisato che la declaratoria di inammissibilità di entrambi i ricorsi trae origine da una causa originaria (la aspecificità e la manifesta infondatezza dei motivi) che ha impedito il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, inibisce in questa sede (come statuiscono in conformità le Sez. Unite con sentenza 22/11/2000, ric. De Luca) la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. e, nel caso di specie, la prescrizione del reato contravvenzionale, maturatasi in data 19/7/2005, successiva alla sentenza impugnata, devesi, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., condannare i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno di essi, inoltre, al versamento in favore della Cassa delle ammende della sanzione pecuniaria, ritenuta congrua nella misura indicata in dispositivo, in ragione dei profili e dell’entità della colpa riconoscibili nella rispettiva condotta processuale, inosservante dei limiti del giudizio di legittimità.

Gli stessi ricorrenti devono, inoltre, essere condannati in solido a rifondere le spese di lite sostenute nel grado dalla parte civile vittoriosa, D.C.C., in proprio e nella qualità di genitore esercente la potestà genitoriale, spese che si liquidano nella complessiva somma di Euro 2.517,00 oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno di essi, inoltre, al versamento della somma di 1000,00 Euro in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese di lite sostenute dalla parte civile, D.C.C., in proprio e nella qualità di genitore esercente la potestà genitoriale, spese che liquida in Euro 2.517,00 oltre accessori come per legge.

Roma, 27.3.2009. Deposito 6.5. 2009