LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCIARELLI Guglielmo - Presidente -
Dott. MAIORANO Francesco Antonio - Consigliere -
Dott. VIDIRI Guido - Consigliere -
Dott. DE MATTEIS Aldo - rel. Consigliere -
Dott. DI CERBO Vincenzo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M.A.M., elettivamente domiciliata in ROMA VIA FULCIERI PAULUCCI DE CALBOLI 9, presso lo studio dell'avvocato FRANCO RODOLFO,
rappresentata e difesa dall'avvocato DE GIORGI LUIGI, giusta delega
in atti;
- ricorrente -
contro
I.N.A.I.L., ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA IV NOVEMBRE 144, presso gli avvocati LA PECCERELLA LUIGI, RASPANTI RITA, che lo rappresentano e difendono giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 779/05 della Corte d'Appello di LECCE, depositata il 22/04/05 R.G.N. 3072/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
13/12/07 dal Consigliere Dott. DE MATTEIS Aldo;
udito l'Avvocato RASPANTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza 26 giugno 2003 il tribunale di Lecce, giudice del lavoro, ha riconosciuto alla signora M.A.M. il diritto, nei confronti dell'Inail, a conseguire la rendita ai superstiti prevista del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 85 e 106, in qualità di madre di V.C., deceduto il 24 novembre 1998 in infortunio sul lavoro, sul presupposto che questi provvedesse alla sussistenza della madre con apporti economici fissi e continuativi.
La corte d'appello di Lecce, con sentenza 30 marzo / 22 aprile 2005 n. 779, in accoglimento dell'appello dell'Inail, ha respinto la domanda proposta dalla M..
Il giudice di appello ha premesso in diritto che ai fini della vivenza a carico di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 85, l'ascendente che richieda la rendita ai superstiti deve dimostrare:
a) la mancanza di risorse proprie sufficienti alle elementari esigenze di vita;
b) il costante regolare apporto economico del figlio premorto per consentire, seppure in parte, il sostentamento del genitore. Ha rilevato in fatto che:
1. dalle acquisizioni documentali risulta che la signora M. percepiva all'epoca un reddito annuale di poco più di L. 12 milioni;
che abitava in casa di proprietà gravata di ipoteca a garanzia di un mutuo di Lit 30 milioni estinguibile con rate semestrali di circa 2.400.000 (e quindi di Lire 400.000 al mese).
2. dalle dichiarazioni rese dalla figlia V.R., legittimamente acquisite ai sensi dell'art. 421 c.p.c., risulta che il fratello C. forniva aiuto economico con denaro per importi non precisati, consegnato alla madre in occasione del suo rientro dal suo luogo di lavoro in Bologna in casa a P. e N..
Il giudice di appello ha ritenuto che il reddito residuo, dopo il pagamento del mutuo per la casa, era certamente assai limitato, ma non insufficiente a fronteggiare le primarie esigenze di vita della M.; le dazioni in occasione di N. e P. dimostrano unicamente detta circostanza, ma non provano la eventuale mancanza da parte della madre di mezzi idonei al proprio sostentamento. Ha concluso che nel caso in esame mancano entrambi i requisiti per la rendita ai superstiti, e cioè l'insufficienza dei mezzi di sussistenza propri, e la prova del costante e regolare apporto economico del figlio premorto.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la M., con quattro motivi.
L'Istituto intimato si è costituito, resistendo, con controricorso illustrato da memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
(Torna su) Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
E' opportuno premettere l'esame del quarto motivo, con cui la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 85 e 106.
Benchè la ricorrente individui il vizio unicamente nella circostanza che la sentenza impugnata abbia espresso una valutazione difforme, rispetto al primo giudice, della gravità della propria situazione economica, il suo esame è opportuno perchè consente di verificare le premesse dommatiche della sentenza impugnata.
I principi di diritto posti a base della sentenza impugnata sono conformi alle norme di legge ed alla loro interpretazione nomofilattica di questa Corte.
L'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali tutela, innanzitutto, l'evento di massima gravità costituito dalla morte dell'assicurato a causa dell'infortunio o della malattia professionale. In tal caso, è connaturale all'evento protetto che le prestazioni previdenziali vadano a favore non del lavoratore assicurato deceduto, ma dei suoi familiari, i quali dal suo lavoro traevano i mezzi di sopravvivenza o che comunque si giovavano del suo apporto economico al menage familiare.
Pertanto già nel regime di indennizzo in capitale era previsto che l'indennità per il caso di morte fosse devoluta a determinate categorie di familiari: i discendenti, gli ascendenti, i collaterali e il coniuge (così menzionati nell'ordine).
Introdotto dal R.D. 17 agosto 1935, n. 1765 il regime di indennizzo in rendita, il suo art. 27 istituì la rendita ai superstiti.
Dopo molteplici miglioramenti apportati da vari interventi legislativi, la disciplina attuale è contenuta nel D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 85, (T.U.), come modificato dalla L. 10 maggio 1982, n. 251, art. 7, comma 1, il quale disegna una gerarchia di beneficiari, distinguendoli in due categorie: familiari che hanno in ogni caso diritto alla rendita (coniuge, figli fino ai 18 anni e figli inabili di qualsiasi età), e superstiti per i quali è richiesto l'ulteriore requisito della vivenza a carico (ascendenti, adottanti, fratelli e sorelle).
La distinzione tra le due categorie risiede in più caratteri:
a) i primi sono beneficiari necessari, mentre i secondi solo eventuali, e in via gradata, nell'ipotesi di assenza dei primi;
b) il coniuge ha diritto comunque alla rendita, anche se gode di redditi propri, perchè si presume che in ogni caso la morte dell'assicurato danneggi il menage familiare, nel quale i suoi redditi confluivano, mentre per tutti gli altri superstiti si richiede il requisito della vivenza a carico, come definita dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 106 (T.U.);
c) inoltre per i fratelli e le sorelle è richiesta altresì la convivenza con il defunto, che è cosa diversa dalla vivenza a carico.
Poichè la ricorrente è madre del de cujus, si richiede la vivenza a carico.
Il D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 106 (T.U.) definisce tale nozione nei seguenti termini:
"Agli effetti dell'art. 85, la vivenza a carico è provata quando risulti che gli ascendenti si trovino senza mezzi di sussistenza autonomi sufficienti ed al mantenimento di essi concorreva in modo efficiente il defunto".
I due presupposti sono entrambi necessari e come due facce dello stesso fenomeno (Cass. 25 agosto 2006 n. 18520).
Il livello quantitativo di sussistenza del richiedente non è determinato nè per legge, nè con direttive amministrative, nè attraverso la giurisprudenza di legittimità.
Sul piano nomofilattico che le compete questa Corte può semplicemente dire che l'espressione "mezzi di sussistenza" con cui il D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 106, definisce lo stato di vivenza a carico richiama l'analoga espressione "mezzi necessari per vivere" di cui all'art. 38 Cost., comma 1, e non i "mezzi adeguati di vita del lavoratore", di cui al comma 2.
Costituisce ancora questione di diritto l'individuazione dei cespiti e dei debiti rilevanti per la valutazione della sufficienza dei mezzi propri di sussistenza. Benchè la ricorrente si sia lamentata della omessa considerazione, da parte del giudice d'appello, di ulteriori debiti, esclusivamente sotto il profilo dell'irragionevole scostamento dagli accertamenti istruttori del primo giudice, appare corretta la premessa dommatica che sottostà alla decisione del giudice d'appello, il quale ha dato rilievo al reddito da pensione ed ai debiti inerenti alla casa di abitazione, e non a fatti eccezionali quali i debiti ereditati dal marito defunto nella gestione dell'attività commerciale.
Ciò posto, la determinazione in concreto della sufficienza dei mezzi di sussistenza è tipico giudizio di fatto demandato al giudice del merito, il quale può valutare tale sufficienza in relazione al costo della vita, al potere di acquisto della moneta, e agli altri standards sociali del luogo in cui la vicenda si svolge.
Non sembra applicabile al caso di specie, data la diversità delle fonti normative e delle nozioni dalle stesse adottate, la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 3 luglio 2007 n. 14996), la quale, al fine di determinare la nozione di vivenza a carico nella diversa fattispecie della pensione di reversibilità a carico dell'Inps in favore di figlio maggiorenne inabile, ha determinato la soglia di autosufficienza (recependo le determinazioni dello stesso Istituto previdenziale) nel limite di reddito previsto per il riconoscimento del diritto a pensione nei confronti degli invalidi civili totali stabilito dal D.L. 30 dicembre 1979, n. 663, art. 14 septies, convertito, con modificazioni, in L. 29 febbraio 1980, n. 33, nel senso che un reddito proprio del figlio inabile inferiore a tale limite configura il requisito della vivenza a carico.
La giurisprudenza di legittimità si è viceversa focalizzata sul secondo elemento necessario, il contributo del de cujus ed il rapporto tra questo e i mezzi propri dell'ascendente.
Il principio enunciato è che, per quanto riguarda l'apporto del de cujus, non si richiede che il superstite fosse totalmente mantenuto in tutti i suoi bisogni dal lavoratore defunto, ma è indispensabile, e insieme sufficiente, che quest'ultimo abbia contribuito in modo efficiente al suo mantenimento mediante aiuti economici che per la loro costanza e regolarità costituivano un mezzo normale, anche se parziale, di sussistenza (Cass. 18 maggio 2001 n. 6794; Cass. 12 giugno 1998 n. 5910; Cass. 4 marzo 2002 n. 3069; Cass. 28 luglio 2005 n. 15914).
E' necessario però sempre l'altro presupposto, quello dell'insufficienza dei mezzi propri di sussistenza.
Su tale accertamento si appuntano i primi tre motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione. Con essi la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 416, 421, 345 c.p.c., comma 2, dell'art. 2697 c.c.; omessa, insufficiente e contradditoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), lamenta che il giudice d'appello avrebbe disatteso immotivatamente gli accertamenti istruttori del primo giudice, non contestati, il quale aveva accertato debiti della M. per importi superiori al mutuo di trenta milioni per la casa, unicamente considerato dalla sentenza impugnata; avrebbe affermato falsamente l'inesistenza di altre pregresse esperienze lavorative del V., affermando che egli aveva lavorato solo per un periodo di quattro mesi con la cooperativa di facchinaggio. Ricorda che la figlia V.R., come dalla stessa dichiarato, viveva a Roma, e non contribuiva al mantenimento della madre, mentre il fratello C. lavorava a Bologna come socio - dipendente di cooperativa di facchinaggio, e contribuiva al mantenimento della madre, con somme in contanti di cui non sapeva precisare l'importo.
La Corte osserva:
1. L'impugnazione dell'Inail abilita il giudice d'appello all'esercizio dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c..
2. Quanto alla mancata considerazione degli ulteriori debiti, si è già detto sulla correttezza della loro esclusione, dato il loro carattere eccezionale.
3. Quanto alla valutazione sulla sufficienza della pensione percepita dalla M., depurata dell'onere del mutuo per la casa, essa costituisce tipica valutazione di fatto insindacabile in questa sede di legittimità (ex plurimis da ultimo Cass. 18154/2007, 18384/2006).
4. Non risulta infine scalfita la valutazione del giudice d'appello circa l'insufficienza della prova sui caratteri di costanza, regolarità ed entità degli apporti del figlio.
Il ricorso va pertanto respinto.
Nulla deve disporsi per le spese del presente giudizio ai sensi dell'art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo anteriore a quello di cui al D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 42, comma 11, convertito in L. 24 novembre 2003, n. 326, nella specie inapplicabile "ratione temporis"; infatti le limitazioni di reddito per la gratuità del giudizio introdotte da tale ultima norma non sono applicabili ai processi il cui ricorso introduttivo del giudizio sia stato depositato, come nella specie, anteriormente al 2 ottobre 2003 (data di entrata in vigore del predetto decreto legge) (Cass. 1 marzo 2004 n. 4165; nello stesso senso, in motivazione, S.U. 24 febbraio 2005 n. 3814).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla per le spese processuali del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2008