Cassazione penale sez. IV, 25 marzo 2011, n. 32119
La sentenza si segnala in particolare per i seguenti enunciati
(OMISSIS) Come già evidenziato in molteplici decisioni, se è vero che per i lavori svolti in esecuzione di un contratto d'appalto incombe sull'appaltatore quale datore di lavoro (per aver assunto l'onere dell'organizzazione del lavoro con propri mezzi e con maestranze da lui stesso assunte) l'obbligo primario dell'osservanza delle disposizioni antinfortunistiche, non è peraltro men vero che sia configurabile, in talune circostanze, una responsabilità concorrente anche del committente in caso di verificazione di incidenti sul lavoro.
A costui risalirà invero la corresponsabilità dell'evento ove questo si colleghi causalmente anche alle sua condotta colposa commissiva od omissiva, qualora, ad esempio, abbia consentito lo svolgimento del lavoro in presenza di situazioni o con l'impiego di mezzi dai quali potevano generarsi rischi per l'incolumità dei lavoratori ovvero si sia ingerito nell'esecuzione delle stesse operazioni, contrattualmente demandata all'appaltatore.
(OMISSIS) Con sentenza in data 3 ottobre 2008, il Tribunale di Piacenza, in esito a giudizio abbreviato, dichiarava D.C. responsabile del delitto di cui all'art. 590, comma 3 in relazione all'art. 583 c.p., comma 2, n. 3 commesso in Piacenza in data (OMISSIS) 2003 in danno di Z.G. che, in veste di dipendente della "(OMISSIS). - alla quale la ditta "Di. Far. Co." di (OMISSIS)società a r.l D.C. & C. s.n.c. (legalmente rappresentata dall'imputato) aveva appaltato la movimentazione delle merci presenti in magazzino - aveva subito lesioni personali gravissime tali da determinarne la invalidità assoluta per paralisi degli arti inferiori.
Al D. si contestava di aver fornito alle cooperative appaltatrici, in violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 6, comma 2 e art. 7, comma 1, lett. b) un carrello elevatore inidoneo al sollevamento di persone tramite gabbia, anch'essa inidonea all'uso (dalla quale il lavoratore mentre operava ad un'altezza di circa otto metri dal suolo, era precipitato) o di averne comunque tollerato l'uso e di aver omesso di informare le stesse appaltatrici dei rischi specifici presenti nell'ambiente di lavoro.
L'imputato era per l'effetto condannato alla pena, interamente condonata, di mesi OTTO di reclusione oltrechè al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, da liquidarsi in separata sede, eccezion fatta per una provvisionale immediatamente esecutiva.
La sentenza di primo grado era confermata in data 4 giugno 2010 dalla Corte d'appello di Bologna.
L'infortunio occorso allo Z. si era verificato, alla stregua dell'acclarata ricostruzione dell'accaduto, poichè mentre l'operaio si trovava sollevato, ad un certa altezza da terra per poter raggiungere una scaffalatura sita a mt. 4,70, all'interno di una gabbia metallica (invero costruita artigianalmente e priva del marchio di omologazione CE) posta su di un carrello elevatore, tale gabbia era stata alzata di scatto, con errata manovra, ad oltre otto metri di altezza da tale B., conduttore di altro carrello sopraggiunto sul posto, mentre quello addetto alla guida del carrello utilizzato dalla parte offesa, si era momentaneamente assentato. Per effetto di tale manovra, la gabbia era andata ad urtare contro la trave del soffitto del capannone per poi sganciarsi dalle forche di sostegno del carrello elevatore, così trascinando il lavoratore, nella caduta al suolo.
Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il D. per tramite del difensore, articolando plurimi motivi per violazione di legge e per vizio di motivazione, di seguito riportati.
Con i primi due motivi di ricorso si censura la ritenuta sussistenza dei contestati addebiti di colpa specifica per violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 6, comma 2 e art. 7, comma 1, lett. b).
La Corte d'appello - deduce il difensore - avrebbe erroneamente qualificato datore di lavoro il D., legale rappresentante della società committente, in quanto ritenuto, in tale veste, titolare della posizione di garanzia necessaria a configurarne la responsabilità, così addebitandogli di fatto la violazione del dovere di cooperazione che grava sul committente ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, comma 2, lett. a); violazione mai contestata e non trattata in giudizio, a differenza del difetto di informazione sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro donde la nullità della sentenza per violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p..
Poichè l'infortunato Z. non era dipendente del committente D., ma della cooperativa appaltatrice della movimentazione delle merci del magazzino, questi non aveva alcun obbligo di tutela nei suoi confronti, ma solo nei confronti dei propri dipendenti le cui mansioni di natura amministrativa non potevano dar luogo ad interferenza con quella dei dipendenti della società appaltatrice.
Lamenta altresì il ricorrente che non aveva costituito oggetto di puntuale contestazione (donde l'ulteriore violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p.) un altro profilo di colpa adombrato dalla sentenza impugnata, in termini di culpa in eligendo per aver il D. omesso di verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'appaltatrice, in ipotesi da valutarsi sempre ex ante e non ex post..
Secondo il ricorrente, la causa dell'incidente non risiedeva nell'impiego del carrello elevatore, ma nell'irregolare assemblaggio con esso della gabbia (peraltro non fornita dal committente) risalente alla condotta dei responsabili della società appaltatrice, destinatari degli obblighi antinfortunistici connessi all'impiego dei macchinari necessari all'espletamento dell'appalto, ivi compreso quello di dotare i propri dipendenti di mezzi di protezione individuali tanto più nel caso di specie in cui, per effetto di specifica disposizione contrattuale, il carrello era stato destinato all'uso improprio di sollevare anche persone.
Con il terzo e con il quarto motivo di ricorso, censura la difesa le statuizioni della sentenza d'appello concernenti l'affermata ricorrenza del nesso di causa tra le condotte colpose, omissive e commissive attribuite all'imputato e l'evento.
Attraverso la consulenza tecnica prodotta in giudizio, la difesa aveva fornito una spiegazione alternativa della dinamica dell'infortunio, sviluppata sulla base di quanto narrato nella denunzia - querela presentata dalla parte offesa (utilizzabile in sede di giudizio abbreviato) nonchè delle dichiarazioni testimoniali rese da R.M.: l'operaio che conduceva il carrello elevatore con il quale il collega infortunato era stato sollevato dal suolo e che, per recarsi in bagno, aveva momentaneamente abbandonato il posto di guida, dopo aver avvertito lo Z.; elementi entrambi costituenti dati "certi" in termini processuali, contrariamente a quanto asserito dalla Corte d'appello.
Applicati al caso concreto i principi fisici della cinematica e della dinamica dei corpi in movimento, il consulente della difesa aveva concluso che l'impiego di una gabbia omologata per il sollevamento delle persone avrebbe evitato lo sfilamento della gabbia dalle "forche" del carrello, cagionando tuttavia, nel contempo, il ribaltamento del carrello con conseguenze ancor più gravi per l'incolumità dell'operaio.
La condotta cautelare omessa non sarebbe stata quindi idonea ad impedire il verificarsi dell'evento lesivo; donde il ragionevole dubbio sulla ricorrenza del nesso di causa, posta l'inevitabilità dell'evento.
La valutazione, ove non omessa, dei comportamenti di R.M. e di B.D. (entrambi colleghi di lavoro dell'infortunato e da questi querelati), intervenuti successivamente alle presunte omissioni addebitate all'imputato, avrebbe dovuto condurre a ravvisare nelle azioni dei predetti le cause sopravvenute, di cui all'art. 41 c.p., comma 2 o comunque fattori imprevedibili in relazione alla produzione dell'evento.
La condotta del B. che, conducendo un altro carrello ad elevata velocità e senza alcun preavviso, benchè consapevole della posizione pericolosa in cui si trovava lo Z., aveva alzato le forche di questo stesso carrello fino a 9/10 metri di altezza, nonostante lo Z., spaventato, urlasse e chiedesse spiegazioni dall'alto, non era stata il risultato di un mero errore di manovra (del tutto prevedibile) ma un'azione abnorme, anomala al di fuori di ogni logica operativa, del tutto imprevedibile tale da rendere inevitabile l'evento; donde l'esclusione del nesso eziologico.
Con il quinto motivo, lamenta il ricorrente l'omessa verifica della sussistenza della colpa, ascritta al D., in cui erano incorsi, per violazione di legge e per vizio motivazionale, i Giudici d'appello.
L'imputato era stato dichiarato responsabile del reato ascrittogli non essendosi acclarato se fosse stato in grado di prevedere e, in caso positivo, di evitare l'evento.
Il D. aveva adempiuto a tutti gli obblighi dei quali era onerato, provvedendo alla nomina di un responsabile del servizio di prevenzione degli infortuni, nella persona di C.M., dotato di adeguate capacità e competenza.
Nè, con riferimento alla specifica contestazione di aver "tollerato l'uso improprio di macchinari" era possibile avallare criteri di prevedibilità presunta.
Con il sesto motivo, censura infine la difesa l'inosservanza dei criteri dettati dall'art. 133 c.p. agli effetti della determinazione del trattamento sanzionatorio e del (diniego delle attenuanti generiche, avendo i Giudici d'appello considerato condotte successive al reato stesso, integranti presunti precedenti penali invero insussistenti.
Con memoria depositata in cancelleria in data 4 marzo 2011, eccepisce il difensore, quale motivo nuovo d'impugnazione, la sopravvenuta estinzione del delitto ascritto all'imputato (consumato il 30 giugno 2003), per prescrizione maturata in data 2 marzo 2011, applicato, nella fattispecie, il termine massimo di anni 7 e mesi 6 nonchè il periodo ulteriore di sospensione di giorni 60.
Insta conclusivamente il ricorrente per l'annullamento della impugnata sentenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e va respinto con il conseguente onere del pagamento delle spese processuali, ex art. 616 c.p.p., a carico dell'imputato, obbligato altresì alla rifusione delle spese in favore delle costituite parti civili, liquidate come da dispositivo letto in udienza.
Preliminarmente rileva il Collegio che, alla data attuale, non risulta maturata la prescrizione, contrariamente all'assunto del ricorrente.
Il termine massimo di anni 7 e mesi 6, di cui agli artt. 157 e 161 c.p. (applicabili nel caso di specie, sia nel testo previgente, attesa la data del contestato reato di cui all'art. 590, comma 3 in relazione all'art. 583 c.p., comma 2, n. 3: 30 giugno 2003 sia in quello attualmente in vigore, rimanendone invariata la durata pur a seguito delle modifiche dell'istituto introdotte ex lege n. 251 del 2005) - tenuto conto delle cause interruttive intervenute nelle more del procedimento - benchè compiutosi il 30 dicembre 2010, risulta invero sospeso dal 15 luglio 2007 al 23 novembre 2007 (per un totale di mesi 4 e giorni 7), a cagione dell'adesione del difensore all'astensione collettiva dalle udienze, proclamata dall'associazione di categoria.
Sicchè detto termine di prescrizione verrà definitivamente a compiersi il 6 maggio 2011.
Nella fattispecie, in conformità a prevalente e consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve ritenersi che la causa di sospensione del termine di prescrizione si estenda all'intero periodo di rinvio o di sospensione del procedimento (come sopra indicato), benchè superiore al limite di giorni sessanta di cui all'art. 159 c.p., comma 1, n. 3 (come novellato) poichè la richiesta di differimento dell'udienza avanzata dal difensore in adesione all'astensione dalle udienze proclamata dalle associazioni di categoria non costituisce impedimento in senso tecnico nè integra un'ipotesi di assoluta impossibilità di partecipare all'attività difensiva. Ne discende quindi che il termine di prescrizione rimane sospeso per tutto il periodo di rinvio stabilito dal giudice di merito (cfr. Sez. 5^ n. 18071/2010; Sez. 3^ n. 33355/2008; Sez. 5^ n. 44924/2007 nonchè S.U. n. 1021 del 2001 in relazione al testo previgente dell'art. 159 c.p.).
In ogni caso ed in subordine, la sospensione del citato termine, per i primi sessanta giorni, può esser conseguenza dell'applicazione dell'art. 159 c.p., comma 1, n. 3 (nel testo novellato già in vigore all'epoca del disposto rinvio) mentre per il restante periodo di rinvio del procedimento, è del tutto legittimo fare appello alla "lettura" della disposizione, fornita dalla testè citata interpretazione giurisprudenziale della norma.
Passando quindi ad esaminare il proposto ricorso, ritiene il Collegio che la sentenza impugnata sia del tutto immune dalle censure dedotte dal ricorrente.
Quanto al primo, al secondo ed al quinto motivo di ricorso - da trattarsi congiuntamente - va rilevato che la Corte distrettuale, confermando le statuizioni della sentenza di primo grado, è pervenuta ad affermare la penale responsabilità dell'imputato in relazione ai contestati profili di colpa generica e specifica, sulla scorta, da un lato, di una valutazione saldamente ancorata alle risultanze processuali e dal l'altro corretta mente recependo, in diritto, gli orientamenti di consolidata e prevalente giurisprudenza di legittimità.
Come già evidenziato in molteplici decisioni, se è vero che per i lavori svolti in esecuzione di un contratto d'appalto incombe sull'appaltatore quale datore di lavoro (per aver assunto l'onere dell'organizzazione del lavoro con propri mezzi e con maestranze da lui stesso assunte) l'obbligo primario dell'osservanza delle disposizioni antinfortunistiche, non è peraltro men vero che sia configurabile, in talune circostanze, una responsabilità concorrente anche del committente in caso di verificazione di incidenti sul lavoro.
A costui risalirà invero la corresponsabilità dell'evento ove questo si colleghi causalmente anche alle sua condotta colposa commissiva od omissiva, qualora, ad esempio, abbia consentito lo svolgimento del lavoro in presenza di situazioni o con l'impiego di mezzi dai quali potevano generarsi rischi per l'incolumità dei lavoratori ovvero si sia ingerito nell'esecuzione delle stesse operazioni, contrattualmente demandata all'appaltatore.
La fonte di tali specifici obblighi risiede nelle disposizioni dettate dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 in termini di doveri di cooperazione all'attuazione di misure di prevenzione e di protezione e di informazione sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro cui i dipendenti delle imprese appaltataci si troverebbero esposti.
Da qui la sussistenza (ravvisata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità: cfr. Sez. 4^ n. 13917/2008 ed i riferimenti in essa contenuti ) di una specifica posizione di garanzia e di controllo dell'integrità fisica anche del personale dipendente dall'appaltatore, assunta dal committente in veste di datore di lavoro.
Ora, nel caso di specie, come correttamente sottolineato dalla Corte distrettuale, era rimasto incontestabilmente acclarato che la (OMISSIS) (legalmente rappresentata dal D.) aveva messo a disposizione della cooperativa appaltatrice dei lavori di facchinaggio (cui attendeva, al momento dell'infortunio, l'operaio Z.G. all'interno del magazzino di pertinenza della società appaltante) apparecchi e strumenti (carrelli sollevatori e relative gabbie non assoggettati ad apposita omologazione in caso di assemblaggio degli uni alle altre) inidonei ex se all'elevazione dal suolo di persone, nella previsione contrattuale di un eventuale impiego in deroga al divieto espressamente sancito dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 184 la cui messa in atto era stata lasciata alla discrezionalità di un non meglio identificato "diretto superiore che si assumerà la responsabilità delle operazioni".
Il che, come ancora evidenziato dai Giudici d'appello, integra patente violazione della disposizione contestata di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 6, comma 2 nonchè del dovere di cooperazione all'attuazione di misure di prevenzione di protezione dai rischi gravanti sugli addetti all'esecuzione delle attività oggetto del contratto d'appalto (enunciato al comma 2 dell'art. 7 dello stesso D.Lgs. ad esplicazione delle specifiche prescrizioni dettate al comma 1 ed in particolare di quella sub B: trascritta nel capo di imputazione) ovverosia del dovere di "contribuire attivamente" ad opera sia del committente che dell'appaltatore a predisporre ed applicare le misure antinfortunistiche necessarie.
Va detto che a tale riguardo (come pure in relazione all'analoga censura formulata in ordine ad altro profilo di colpa specifica non contestata in riferimento all'omessa verifica dell'idoneità tecnico professionale degli appaltatori) resta esclusa la denunziata sussistenza della nullità prevista dall'art. 522 c.p.p., non configurandosi alcuna nullità della sentenza per immutazione del fatto in caso di aggiunta o di sostituzione di un particolare profilo di colpa specifica rispetto a quello contestato; ciò in ossequio a consolidata e prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr. ex multis: Sez. 1^ n. 11538/1997; Sez. 4^ n. 31968/2009; Sez. 4^ n. 2393/2005) essendo comunque l'imputato in condizione di esercitare il diritto di difesa in relazione al fatto ascrittogli nella sua globalità, anche grazie alla concorrente contestazione di colpa generica, come peraltro risulta nella concreta fattispecie.
Le richiamate previsioni contrattuali, oltre al dato obiettivo della fornitura da parte della società committente (legalmente rappresentata dall'imputato) dei macchinari impiegati dall'appaltatrice, in occasione dell'infortunio, valgono ad escludere, come rilevato dalla Corte distrettuale, qualsivoglia prospettata ipotesi di non conoscibilità o di non prevedibilità (e tantomeno di non evitabilità) dell'evento, ad onta degli infondati assunti della difesa.
Il D. era quindi in condizione di percepire immediatamente le gravi condizioni di pericolo per l'incolumità dipendenti addetti alle operazioni di prelievo della merce in quota, conseguenti dall'impiego delle gabbie assemblate ai carrelli elevatori, non omologati "con piena assunzione della connessa responsabilità per aver tale uso consentito" a suo carico, a titolo di colpa.
A dimostrazione ed a conferma della responsabilità congiunta di appaltante ed appaltatore in relazione all'infortunio occorso allo Z., hanno evidenziato i Giudici di merito la diretta ingerenza della società committente nello svolgimento dell'attività lavorativa all'interno del capannone sia per avere la prima fornito le relative attrezzature (peraltro non omologate ed ex se inidonee, come si è osservato) sia per la concreta direzione del lavoro attuata dai dirigenti della stessa (OMISSIS) che, presenti costantemente in magazzino, indicavano ai dipendenti delle appaltatrici la merce da prelevare - cui questi materialmente provvedevano, - come testimoniato dalla stessa parte offesa e da altri operai, menzionati nei provvedimenti di merito, sentiti nel corso del giudizio di primo grado.
E' dunque da escludere che tali modalità di esecuzione del lavoro fossero iniziative estemporanee dei soci lavoratori delle appaltatrici e che venissero poste in atto all'insaputa degli addetti della società appaltante, preposti al controllo. Nè, come pure dimostrato dall'istruttoria e come opportunamente sottolineato dalle pronunzie di merito, costoro avevano mai provveduto a vietare l'impiego improprio e pericoloso dei carrelli elevatori e delle gabbieri primi assemblate, ai fini del sollevamento degli operai in quota nè "imposto" l'impiego del c.d. commissionatore, fornito allo scopo dalla società committente (come riferito dal teste G.) con il quale, secondo il ricorrente, sarebbe stato possibile procedere in sicurezza al sollevamento dal suolo della persona incaricata di prelevare la merce posta a maggiore altezza dal suolo (cfr. Sez. 4^ n. 37840/2009, della cui motivazione la sentenza impugnata riporta ampi stralci).
Appare quindi conclusivamente fuori discussione la sussistenza dei contestati profili di colpa generica e specifica, integrata quest'ultima in particolare dalla violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 6 e 7.
Al D. risale pertanto la responsabilità concorrente, con i titolari delle società appaltatrici, per l'omessa adozione delle misure antinfortunistiche a tutela della incolumità dei dipendenti di queste ultime, incaricati dello svolgimento dell'attività oggetto dell'appalto, attesa la pacifica ingerenza dell'imputato nella gestione del lavoro, derivante dalla diretta fornitura dei macchinari (contrattualmente documentata) e dalla fattiva e concreta attività di direzione delle operazioni (cfr. Sez. 4^ n. 14361/2002).
Egualmente infondate giudica il Collegio le censure articolate con i motivi terzo e quarto del ricorso, in ordine al nesso di causalità, da trattarsi di seguito congiuntamente.
Il difensore dell'imputato ripropone in questa sede le medesime doglianze già dedotte con i motivi d'appello intese a rimarcare gli illegittimi assunti dei Giudici di merito che non avrebbero individuato, travisando le prove acquisite, nella condotta - ritenuta abnorme - del B. (il conducente del carrello - sopraggiunto in prossimità di quello che teneva sollevata la parte offesa - al quale risaliva la abnorme ed inopinata manovra di sollevamento della gabbia al cui interno si trovava lo Z. fino a farla urtare contro la barra del soffitto del capannone, così cagionando la precipitazione al suolo dell'operaio) l'unica causa sopravvenuta ed efficiente dell'infortunio ex se idonea ad interrompere il nesso di causa con le altre antecedenti omissioni o condotte attive dell'imputato.
Gli stessi Giudici d'appello, secondo la difesa, avrebbero inoltre obliterato di dar credito alla tesi propugnata dal ricorrente in ordine all'esclusione della c.d. causalità della colpa ascritta al D. attesochè, giusta la ricostruzione alternativa prospettata dal consulente della difesa, non poteva dirsi provato che l'evento, che la norma cautelare intendeva evitare, si sarebbe verificato nei medesimi termini anche in presenza del comportamento doveroso omesso.
Sulla base dell'acclarata ricostruzione della dinamica dell'infortunio, in narrativa esposta (alla quale si fa rinvio) è del tutto pacifico (come peraltro sottolineato nelle sentenze sia di primo che di secondo grado) che la produzione dell'evento era dovuto all'intervento di plurime cause concorrenti risalenti sia alle condotte di altri lavoratori (i due conducenti dei carrelli coinvolti nella dinamica dell'infortunio: B. e R.) sia all'omesso rispetto della specifica normativa antinfortunistica ascrivibile ai titolari delle società appaltatrici delle operazioni di mano d'opera (OMISSIS) operanti all'interno del medesimo capannone.
Da siffatto, incontestabile assunto, alla stregua di un orientamento ormai consolidato, prevalente ed assolutamente condivisibile della giurisprudenza di legittimità (peraltro illustrato e recepito nella sentenza impugnata) non può tuttavia discendere l'esclusione della responsabilità dell'imputato.
Nessuna interruzione del nesso di causalità, ritenuto sussistente tra gli evidenziati comportamenti commissivi ed omissivi, risalenti al D. e l'evento può legittimamente aver determinato à sensi dell'art. 41 cpv. c.p. la condotta avventata, disattenta, imprudente e negligente degli altri due lavoratori B. e R., non essendo le stesse caratterizzate dalla qualificazione concettuale dell'abnormità o dell'imprevedibile eccezionalità.
Si è invero trattato di condotte poste in essere nell'ambito dell'attività lavorativa e delle mansioni ai predetti lavoratori demandate, non assolutamente estranee al processo produttivo nè ontologicamente avulse da ogni ipotizzabile e prevedibile scelta dei lavoratori stessi, come tali quindi non qualificabili in termini di esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute. Sotto altro profilo va ancora sottolineato, secondo l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 4^ n 6348; Sez. 4 n. 36993/2003) opportunamente riportate dalla Corte distrettuale nel corpo della motivazione della sentenza impugnata) che la normativa antinfortunistica è finalizzata a tutelare il lavoratore, nell'ambito dell'attività al medesimo demandata, anche dai rischi che alla propria incolumità possono derivare "dalle sue stesse disattenzioni, imprudenze o disobbedienze alle istruzioni ricevute" e quindi anche da comportamenti, egualmente qualificabili, di altri lavoratori dipendenti, colleghi di lavoro dell'infortunato. Non è peraltro consentito al datore di lavoro invocare a propria discolpa la legittima aspettativa nella diligenza del lavoratore, versando l'imputato in re illicita per non aver, per propria colpa, impedito l'evento lesivo cagionato all'infortunato avendo questi operato sul luogo di lavoro in condizioni di pericolo, come invero si è verificato nel caso concreto.
Il B. nonchè i titolari delle società appaltatrici avevano infatti seguito modalità operative di lavoro in violazione alla normativa antinfortunistica risalenti o comunque tollerate dal D. quanto all'impiego di macchinari non omologati, dal predetto forniti, improvvidamente ed imprudentemente assemblati tra di loro tali da mettere a repentaglio l'incolumità degli addetti in dispregio a quanto in via generale sancito dall'art. 2087 c.c..
Concludendo sul punto, vanno innanzitutto condivise le esaustive argomentazioni con le quali (cfr. fgl. 8) la Corte distrettuale ha inteso confutare l'asserita "decisività" delle conclusioni esposte dal consulente della difesa in ordine all'irrilevanza del comportamento omesso al fine di evitare l'evento.
Nè in sede di legittimità può esser consentito, attesa la congrua motivazione resa, "sostituire" alle valutazioni del Giudice di merito, quelle diverse, prospettate dalla difesa in termini più favorevoli alla posizione dell'imputato.
E deve altresì sottolinearsi, a conferma della pacifica ricorrenza del nesso eziologico, che, qualora l'imputato avesse imposto l'adozione di una diversa e corretta procedura di prelevamento della merce dagli scaffali più alti - eventualmente mediante l'impiego del c.d. commissionatore - (e ne avesse controllato il concreto ed effettivo impiego) l'evento non si sarebbe verificato in quanto non sarebbe stato necessario per lo Z. salire su una gabbia per raggiungere lo scaffale più alto.
In relazione alla condotta commissiva va detto che l'impiego di una gabbia regolamentare, dotata dell'apposito dispositivo di sicurezza tale da evitarne lo sganciamento dalle forche del carrello elevatore, induce ragionevolmente ad affermare che, in caso si eventuale ribaltamento del muletto, ciò avrebbe impedito il verificarsi delle gravi lesioni in concreto patite dal lavoratore infortunato "in considerazione del diverso angolo di caduta che avrebbe presumibilmente ridotto le conseguenze dell'impatto con il terreno della gabbia stessa", come osservato dal Giudice di primo grado.
Quanto al sesto motivo di ricorso, immune dai denunziati vizi vanno giudicate le argomentazioni con cui la Corte d'appello di Bologna ha inteso confermare le statuizioni della sentenza di primo grado (espressamente e puntualmente richiamate per relationem) in ordine al trattamento sanzionatorio ed alla cui stregua ha ritenuto di denegare all'imputato il riconoscimento delle attenuanti generiche, rimarcando la gravità delle lesioni patite dalla persona offesa, i precedenti penali e la condotta dell'imputato, elusiva degli obblighi e delle tutele antinfortunistiche. Il che risulta perfettamente in linea con i parametri previsti dall'art. 133 c.p., di cui si è fatta, nella concreta fattispecie, corretta applicazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese in favore delle parti civili costituite e liquida le stesse in complessivi Euro 2.708,00, oltre accessori come per legge per F.C., Z. F., Z.E., Z.R., Z. G. ed in complessivi Euro 2.308,00 per Z.G., oltre accessori come per legge.
Roma, il 25 marzo 2011. Depositato 17 agosto 2011