Cassazione penale sez. IV, 10 aprile 2012, n. 21204
La sentenza si segnala in particolare per i seguenti enunciati:
(OMISSIS) … si osserva che la sentenza impugnata ha affermato in modo assolutamente apodittico che "la discesa nella stiva di una nave attraverso un'apposita scala a pioli fissata al muro non era attività che comportasse il rischio di caduta dall'alto". Tanto premesso si rileva che il D. Lgs. n. 626 del 1994, art. 4 stabilisce che il datore di lavoro valuta tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori e a tale fine elabora il Documento programmatico della Sicurezza, (OMISSIS) … Tanto premesso, la sentenza impugnata non ha considerato se in quelle condizioni di tempo e di luogo il datore di lavoro avesse valutato i rischi che tale attività comportava per il lavoratore. La norma di cui sopra infatti fa carico al datore di lavoro di provvedere in maniera sistematica alla catalogazione in funzione di prevenzione dei rischi connessi all'organizzazione del lavoro nell'impresa.
(OMISSIS) RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 5 maggio 2008 il Tribunale di Pescara in composizione monocratica assolveva S.B. e A. C. dal reato di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro in danno di D.L.A. e dalla contravvenzione di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4 e art. 5, lett. f), comma 2, lett. b), quanto al primo perchè il fatto non costituisce reato, quanto al secondo perchè il fatto non sussiste.
Ai due imputati era stato contestato il reato di cui all'art. 589 cod. pen. aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica perchè, nella loro qualità di soci accomandatari dell'"Impresa portuale (OMISSIS)", in data 11.03.2003, cagionavano la morte di D.L.A., lavoratore dipendente con qualifica di gruista, il quale, impegnato in operazioni preliminari di scarico di rotoli di lamiere in acciaio e di perlustrazioni dei luoghi nella stiva della M/N (OMISSIS), stiva all'interno della quale si accedeva per mezzo di una scala fissa con pioli di ferro, alta circa m.5,35, formata da due tronconi in ferro sfalsati, con un piano intermedio posto a circa tre metri da terra, scendendo le scale senza indossare il casco e senza avvalersi di una cintura di sicurezza, cadeva all'interno della stiva e, a seguito del trauma cranico riportato, moriva.
Avverso la decisione del Tribunale hanno proposto appello sia il Procuratore della Repubblica presso Tribunale di Pescara, sia le parti civili costituite.
La Corte di Appello dell'Aquila in data 28.01.2011, confermava la sentenza emessa nel giudizio di primo grado.
La Corte territoriale non ha ravvisato profili di colpa a carico dei due imputati, con riferimento in particolare al fatto di non aver preteso da parte dei lavoratori e, quindi, anche del D.L., l'uso dei mezzi di protezione personale, e cioè del casco e della cintura di sicurezza, allorquando scendevano nella stiva nelle condizioni delineate nel capo di imputazione. In particolare la sentenza impugnata osservava, quanto al casco di protezione, che il casco era in dotazione al D.L. ma egli non l'aveva indossato e che, comunque, per la discesa nella stiva, nessun obbligo vi era per gli operai di indossare un copricapo finalizzato a riparare dalla caduta di oggetti dall'alto. Quanto poi alla questione relativa alle cinture di sicurezza la Corte territoriale ha osservato che anche all'epoca del fatto, prima cioè dell'entrata in vigore del D. Lgs. n. 81 del 2008, gli imputati avrebbero dovuto valutare quali fossero i mezzi di protezione necessari per il tipo di attività svolta, tenendo presente che ai sensi del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 386 i lavoratori che erano esposti a pericolo di caduta dall'alto dovevano essere provvisti di apposita cintura di sicurezza. Nella fattispecie che ci occupa peraltro gli amministratori dell'azienda avevano avuto ben presente che nel tipo di attività svolta potessero verificarsi delle situazioni nelle quali era necessario l'uso di imbracature, tanto che ne avevano previsto l'acquisto e ne avevano messo alcune a disposizione dei lavoratori.
Peraltro la Corte territoriale aveva ritenuto che la discesa nella stiva di una nave attraverso un'apposita scala a pioli non era attività che comportasse il rischio di caduta dall'alto, con ciò affidandosi al giudizio degli autori dei sopralluoghi ed anche dell'ispettore del lavoro, i quali non avevano avvertito la sensazione di pericolosità della manovra, dal momento che erano scesi nella stiva senza utilizzare alcuna imbracatura.
Avverso la predetta sentenza le parti civili costituite D.L. E. e D.A., a mezzo del loro difensore, proponevano ricorso per Cassazione chiedendone l'annullamento per quanto riguarda gli aspetti civilistici della stessa e, nell'ipotesi in cui il Procuratore Generale abbia proposto ricorso in cassazione, anche per quanto riguarda la responsabilità penale dell'imputato, per i seguenti motivi: mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità, irrazionalità della motivazione anche in ordine alla valutazione delle dichiarazioni testimoniali oltre che travisamento delle prove (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c), d) ed e)).
In primo luogo, secondo le parti civili ricorrenti, la Corte territoriale avrebbe irrazionalmente compreso nella misura dell'altezza complessiva tra il piano di tolda e il pavimento della stiva (calcolata in metri 5,37) anche quella del boccaporto unico, nonostante che l'altezza di tale elemento fisico-metallico, da superare per accedere al livello interno del piano di tolda e poi al primo piolo affisso sulla parete interna della stiva fosse di un'altezza superiore al ginocchio delle persone effigiate nelle fotografie 1 e 2 delle rilevazioni effettuate dall'Ispettore del Lavoro. La circostanza pertanto che esistesse un boccaporto di circa cm. 60-65 (senza pioli), che bisognava scavalcare per entrare all'interno della stiva, nella cui parete sono posti i pioli induceva le parti civili ricorrenti a ritenere che l'operazione fosse ben più pericolosa di quanto ritenuto dalla Corte territoriale e che fosse necessario l'utilizzo dei presidi di sicurezza.
A tal proposito rilevavano le parti civili ricorrenti che era emerso dalle dichiarazioni dei testi escussi che, per quanto attiene al casco di sicurezza, nessuno lo portava, che il nucleo dei lavoratori era pari a sei persone, che questi lavoravano sotto il controllo dell' A. e che solo in occasione di controlli preannunciati venivano portati ai lavoratori i caschi. Il giorno dell'infortunio poi soltanto il P. indossava il casco di sicurezza e dunque gli imputati sapevano che gli operai lavoravano senza casco e quindi l' A., quella sera, non poteva non aver visto che il D. L., che aveva lavorato insieme con lui l'intero giorno, non portava il casco, ma un semplice berretto di lana. Quanto poi al mancato uso delle cinture di sicurezza, le parti civili ricorrenti richiamavano le dichiarazioni dei testimoni che avevano affermato di non avere una cintura di sicurezza, ma di avere visto una cinta con imbracatura. La Corte territoriale, quindi, preso atto dell'inesistenza delle cinture di sicurezza, era passata a considerare la presenza di alcune imbracature che, peraltro, nulla hanno a che fare con le cinture di sicurezza, in quanto sono due mezzi di protezione totalmente diversi e finalizzati ad un utilizzo diverso, in quanto le imbracature servono per lavorare nel vuoto, le cinture di sicurezza invece servono per muoversi su pali, scale e pertanto hanno una funzionalità completamente diversa. Secondo le parti civili ricorrenti sussisteva quindi la responsabilità degli imputati che avevano fatto lavorare il D.L. senza casco (non accertandosi che l'avesse) e senza cintura di sicurezza, pur essendo l'attività da lui espletata, e cioè l'accesso alla stiva, pericolosa, trattandosi di un luogo buio di non facile accesso, in cui il primo piolo si trovava a circa 80 centimetri sotto il bordo del boccaporto.
All'udienza del 10.04.2012, dopo il compimento degli incombenti stabiliti dal codice di rito, il processo era deciso come da dispositivo che segue.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il proposto ricorso è fondato e merita pertanto accoglimento.
La sentenza impugnata da atto che, per entrare nella stiva, era necessario scendere due scale a pioli di cui una era alta metri 2,35 e la seconda 3 metri, sfalsate e con un piano intermedio posto a circa tre metri da terra.
Per accedere alla prima scaletta era necessario poi scavalcare il boccaporto (che secondo quanto si legge in sentenza avrebbe avuto un'altezza di poco superiore al ginocchio delle persone effigiate nelle fotografie in atti) e poggiare il piede sul primo piolo, posizionato immediatamente sotto il piano di tolda.
Le ricorrenti parti civili contestano tali misure in quanto l'altezza complessiva delle due scale e del boccaporto a loro avviso sarebbe stata maggiore.
E pacifico altresì che il lavoratore deceduto stava scendendo nella stiva senza utilizzare il casco di protezione e la cintura di sicurezza.
Peraltro, anche a volere dare per esatti i dati di cui sopra, si osserva che la sentenza impugnata ha affermato in modo assolutamente apodittico che "la discesa nella stiva di una nave attraverso un'apposita scala a pioli fissata al muro non era attività che comportasse il rischio di caduta dall'alto".
Tanto premesso si rileva che il D. Lgs. n. 626 del 1994, art. 4 stabilisce che il datore di lavoro valuta tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori e a tale fine elabora il Documento programmatico della Sicurezza, che contiene la relazione sulla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, nella quale sono specificati i criteri adottati per la valutazione stessa e l'individuazione delle misure di prevenzione e di protezione e dei dispositivi di protezione individuale.
Ai sensi del sopra indicato art. 4 il datore di lavoro deve adottare le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori, designando preventivamente, nell'affidare i compiti agli stessi, chi di essi abbia le capacità tecniche, fornendo loro i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, prendendo le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni accedano alle zone che li espongano ad un rischio grave e specifico, e richiedendo l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione.
Tanto premesso, la sentenza impugnata non ha considerato se in quelle condizioni di tempo e di luogo il datore di lavoro avesse valutato i rischi che tale attività comportava per il lavoratore. La norma di cui sopra infatti fa carico al datore di lavoro di provvedere in maniera sistematica alla catalogazione in funzione di prevenzione dei rischi connessi all'organizzazione del lavoro nell'impresa.
Né potevano ritenersi decisive ai fini della negazione della responsabilità degli imputati le circostanze che D.L.A. non avrebbe ricevuto da nessuno l'ordine di scendere nella stiva e che comunque vi era sceso senza utilizzare il copricapo protettivo che gli era stato fornito dal datore di lavoro.
Sul punto infatti la pacifica e condivisibile giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le altre, Cass., Sez. 4, Sent. n. 3877 del 29.09.2005, Rv.232421) ha stabilito che, in tema di prevenzione infortunistica, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia in definitiva del tutto imprevedibile o opinabile e dunque causa alternativa esclusiva e adeguata.
La Corte territoriale avrebbe pertanto dovuto considerare se, e in che modo, il datore di lavoro avesse dato osservanza alle norme cautelari fondamentali in tema di tutela della salute, prima fra tutte quella relativa alla valutazione dei rischi.
Alla luce delle considerazioni che precedono la sentenza impugnata deve essere quindi annullata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello cui demanda il regolamento tra le parti delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui demanda il regolamento tra le parti delle spese del presente giudizio.
Roma, 10 aprile 2012. Deposito 31 maggio 2012