Cass. pen. sez. IV, 06 novembre 2009, n. 43966
La sentenza si segnala in particolare per i seguenti enunciati:
…l’applicazione del principio di colpevolezza esclude qualsivoglia automatico addebito di responsabilità, a carico di chi pure ricopre la posizione di garanzia, imponendo la verifica in concreto della violazione da parte di tale soggetto della regola cautelare (generica o specifica) e della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare mirava a prevenire (la c.d. “concretizzazione” del rischio): infatti, l’individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l’evento (ciò che si risolve nell’accertamento della sussistenza del nesso causale) e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare (generica o specifica) (ciò che si risolve nell’accertamento dell’elemento soggettivo della colpa), ma anche se l’autore della stessa (qui, il titolare della posizione di garanzia in ordine al rispetto della normativa precauzionale) potesse prevedere ex ante quello “specifico” sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo. In quest’ottica, la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso di condizionamento tra la condotta e l’evento non sono sufficienti per fondare la responsabilità, giacchè occorre anche chiedersi, necessariamente, se l’evento derivatone rappresenti o no la “concretizzazione” del rischio che la regola stessa mirava a prevenire. Occorre cioè chiedersi se l’evento dannoso fosse o no prevedibile ex ante: ciò in quanto l’inosservanza delle regole cautelari può dare luogo ad una responsabilità colposa soltanto per gli eventi che le regole stesse miravano ad evitare…
(OMISSIS)
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Perugia confermava quella di primo grado che aveva ritenuto M.A. responsabile del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno di B.R., la quale, trovandosi al piano seminterrato dell’immobile, sul quale erano in corso lavori di demolizione, veniva colpita alla testa da porzioni di materiale inerte staccatosi a seguito del crollo dell’edificio di proprietà di terzi (fatto avvenuto in data (OMISSIS)).
Il M. era stato chiamato a risponderne nella duplice qualità di legale rappresentante e direttore del cantiere della Ditta Edilmorelli, essendosi ravvisati a suo carico profili di colpa specifica, fondata sulla inosservanza agli obblighi imposti dal D.P.R. n. 164 del 1956, art. 72 che gli imponevano di provvedere alla realizzazione di opere provvisionali, quali puntellature ed altro, utili a mantenere l’efficienza statica dell’edificio in fase di parziale demolizione.
I giudici di merito hanno confermato l’ipotesi accusatoria e, accogliendo le conclusioni della consulenza G. - Ma., hanno affermato che la causa del crollo era da individuarsi nella avvenuta inversione delle opere di demolizione (dal basso verso l’alto anzichè dall’alto verso il basso), nonchè nella concorrente e coadiuvante azione di picconatura compiuta da due operai nella eliminazione dei pannelli stabilizzanti delle pareti.
Avverso la predetta decisione propone ricorso per Cassazione M. A. articolando sette motivi. Con il primo motivo, premesso che nel corso della istruttoria dibattimentale di primo grado erano state espletate cinque consulenze dirette ad accertare le cause del crollo, lamenta la carenza di motivazione in punto di determinazione del nesso di causalità laddove il giudice di appello avrebbe accolto acriticamente l’ipotesi formulata dalla consulenza G. - Ma., pur non essendo stato raggiunto quell’alto grado di credibilità razionale che l’evento non si sarebbe verificato nell’ipotesi in cui l’imputato avesse adempiuto agli obblighi asseritamente posti a suo carico. Analogo vizio motivazionale viene ravvisato anche nel mancato raffronto tra la ipotesi fatta propria dai giudici di merito e quelle esposte dagli altri consulenti, ivi descritte, che avevano riconosciuto l’originaria precarietà statica dell’immobile non riconducibile ai lavori di ristrutturazione posti in essere dal M., che non era stato informato della situazione di pericolosità dell’immobile, rilevabile, peraltro, esclusivamente da soggetti qualificati, quali il progettista ed il direttore dei lavori. Ciò soprattutto tenuto conto che le conclusioni peritali alle quali avevano aderito i giudici di merito erano quelle dei consulenti dell’altro imputato, direttore dei lavori, già assolto in primo grado, interessati, pertanto, a scagionare quest’ultimo, collocando le operazioni di rimozione delle tavelle in un periodo successivo alla visita effettuata dallo stesso all’immobile.
Con il secondo motivo lamenta la violazione del citato D.P.R. n. 164 del 1956, art. 72 sostenendo l’illogicità della decisione sotto due profili: quello soggettivo, sul rilievo della impossibilità di sostenere la responsabilità dell’imprenditore per la violazione di quella norma laddove era stata esclusa la responsabilità del progettista e del direttore dei lavori, ai quali è demandata in via principale la fissazione della tempistica e delle modalità di esecuzione delle opere; quello oggettivo, sostenendo che l’opera demandata al M. non consisteva in una demolizione dell’edificio, ma nella sua ristrutturazione, nell’ambito della quale era prevista la rimozione della copertura e solo alcune circoscritte demolizioni da praticarsi, secondo le disposizioni impartite dalla Direzione dei Lavori, al secondo piano, ove però non erano in corso i lavori.
Nello stesso senso si sottolinea che al momento del crollo gli operai non stavano lavorando alla demolizione di alcuna parte del manufatto essendosi soltanto apprestati ad iniziare l’asportazione di una parte del pavimento che avrebbe dovuto essere sostituito. Con lo stesso motivo il ricorrente ritorna sulla illogicità della decisione che aveva individuato la causa del crollo nello smantellamento dell’intonaco portante e nella rimozione delle tavelle sostenendo che tale operazione era stato solo l’occasione scatenante il collasso del fabbricato e non certo l’effettiva causa del sinistro. Le precarie condizioni dell’immobile, d’altra parte, non erano conoscibili dal M., il quale poteva fare affidamento solo sugli elaborati tecnici esistenti e sulle risultanze del vertice tecnico tenutosi solo due giorni prima del crollo. I giudici di merito non avevano inoltre considerato, nonostante sollecitazioni in tal senso, che le origini della serie di errori che avevano portato al sinistro erano da ricercarsi nel ben diverso e più consistente costo che avrebbe avuto l’intervento di consolidamento dell’edificio rispetto a quello programmato.
Con il terzo motivo si duole della carenza di motivazione nella parte in cui fonda uno dei profili di responsabilità del M. nel generico riferimento ad una omessa puntellatura senza tener conto che l’istruttoria aveva evidenziato come il solaio sul quale stavano lavorando i due operai aveva resistito al crollo e che non era imputabile all’imputato la mancata prevedibilità dell’evento posto che l’attività di cantiere era stata dallo stesso posta in essere in ossequio alle disposizioni impartitegli dal progettista e dal direttore dei lavori all’esito dell’analisi statica dell’edificio compiuta due giorni prima del crollo, le cui cause scatenati non sono state chiarite neanche dal dibattimento.
Con il quarto motivo si duole della erronea applicazione dell’art. 649 c.p.p. giacchè erroneamente il giudice di appello aveva rilevato l’impossibilità di riesaminare criticamente la posizione dei coimputati assolti, così violando il consolidato principio secondo il quale il giudice del separato procedimento instaurato a carico del concorrente nel medesimo reato può sottoporre a rivalutazione il comportamento dell’assolto al solo fine di accertare la sussistenza ed il grado di responsabilità dell’imputato da giudicare, fermo restando il divieto del ne bis in idem.
Con il quinto motivo lamenta l’erronea applicazione dell’aggravante prevista dall’art. 589 c.p., comma 2, difettando la prova tra l’evento e la violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e non essendo riconducibile al M. la presenza della vittima all’esterno del cantiere. Con il sesto motivo denuncia la violazione dell’art. 2053 c.c. sostenendo che erroneamente, benchè ne fosse stata segnalata l’opportunità, non era stata promossa l’azione penale nei confronti dei proprietari dell’immobile, che avevano dato corso al pericolosissimo intervento di straordinaria manutenzione del fabbricato piuttosto che affrontare i costi, notevolmente maggiori, di demolizione e ricostruzione dello stesso.
Con il settimo motivo lamenta l’erroneità della decisione del giudice di appello che aveva negato la rinnovazione della istruttoria dibattimentale attraverso l’espletamento di una nuova perizia tecnica rivolta a chiarire le cause del crollo e le opere di sostegno necessarie ad evitarlo.
I motivi di impugnazione nn. 1, 2, 3, 4 e 6, consentono una trattazione unitaria vertendo, a ben vedere, tutti sulla ritenuta erroneità dell’affermato giudizio di responsabilità.
Pur dovendosene apprezzare la ricchezza espositiva non possono, però, trovare accoglimento, in quanto la sentenza impugnata appare caratterizzata da un convincente apparato argomentativo sulle questioni di interesse ai fini del giudizio di responsabilità; e non presenta, peraltro, neppure errori di diritto, con precipuo riguardo ai principi applicabili in tema di colpa, di nesso di causalità e di eventuale interruzione di questo per la sopravvenienza di causa sopravvenuta eccezionale ed imprevedibile.
Le censure afferiscono il ritenuto nesso di causalità tra la condotta del M., nella qualità di appaltatore delle opere di ristrutturazione dell’immobile e la morte della passante nonchè l’omessa considerazione da parte dei giudici di merito dei profili di responsabilità, emergenti dagli atti, dei coimputati assolti (progettista e direttore dei lavori) e dei proprietari dell’immobile, nei confronti dei quali non era stata neanche promossa l’azione penale.
Sotto il primo profilo, si osserva, in via preliminare, che l’applicazione del principio di colpevolezza esclude qualsivoglia automatico addebito di responsabilità, a carico di chi pure ricopre la posizione di garanzia, imponendo la verifica in concreto della violazione da parte di tale soggetto della regola cautelare (generica o specifica) e della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare mirava a prevenire (la c.d. “concretizzazione” del rischio): infatti, l’individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l’evento (ciò che si risolve nell’accertamento della sussistenza del nesso causale) e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare (generica o specifica) (ciò che si risolve nell’accertamento dell’elemento soggettivo della colpa), ma anche se l’autore della stessa (qui, il titolare della posizione di garanzia in ordine al rispetto della normativa precauzionale) potesse prevedere ex ante quello “specifico” sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo. In quest’ottica, la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso di condizionamento tra la condotta e l’evento non sono sufficienti per fondare la responsabilità, giacchè occorre anche chiedersi, necessariamente, se l’evento derivatone rappresenti o no la “concretizzazione” del rischio che la regola stessa mirava a prevenire. Occorre cioè chiedersi se l’evento dannoso fosse o no prevedibile ex ante: ciò in quanto l’inosservanza delle regole cautelari può dare luogo ad una responsabilità colposa soltanto per gli eventi che le regole stesse miravano ad evitare.
Ed occorre altresì chiedersi se una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) avrebbe o no evitato l’evento: ciò in quanto si può formalizzare l’addebito solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico o anche solo avrebbe determinato apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno.
La sentenza impugnata fa corretta applicazione di tale principio, giacchè, dopo aver chiaramente delineato la posizione di garanzia del M., nella qualità di appaltatore e direttore dei lavori nonchè di direttore responsabile del relativo cantiere, distinguendola da quella del direttore dei lavori e del progettista della struttura, individua nella inversione delle opere di demolizione - dal basso verso l’alto anzichè dall’alto verso il basso - nonchè nella concorrente azione di picconatura compiuta dagli addetti ai lavori, unitamente alla eliminazione dei pannelli, le cause che contribuirono a compromettere l’equilibrio statico dell’edificio, così fornendo una motivazione coerente e logica all’affermato nesso di causalità, non censurabile in questa sede.
Parimenti, la sentenza impugnata ha correttamente individuato, alla stregua delle risultanze istruttorie, nel D.P.R. n. 164 del 1956, art. 72 la norma cautelare violata da parte dell’appaltatore, il quale era venuto meno alle prescrizioni ivi imposte, secondo le quali, per ogni tipo di demolizione, parziale o totale, i lavori devono procedere con cautela dall’alto verso il basso e debbono essere condotti in maniera tale da non pregiudicarne la struttura portante o di collegamento e di quelle eventualmente adiacenti, ricorrendo, ove occorra al loro preventivo puntellamento. E’ stato, altresì, dimostrato, attraverso l’espletamento di consulenza tecnica, che il crollo di quasi tutti i muri del primo piano rappresenta proprio quella concretizzazione del rischio che la citata norma cautelare mirava a prevenire stabilendo quelle doverose cautele, sopra elencate, disattese dall’imputato.
All’evidenza, pertanto, come affermato dai giudici di merito, quel crollo era prevedibile ex ante ed evitabile qualora il M. avesse posto in essere una condotta rispettosa della norma sopra indicata.
Anche il profilo di censura specificamente volto a contestare la posizione di garanzia del prevenuto, in ragione di un preteso coinvolgimento nella vicenda di altri soggetti pur astrattamente onerati dell’obbligo cautelare, è infondato.
E’ nota la giurisprudenza della Cassazione in tema di infortuni di lavoro, con particolare riferimento alla questione della individuazione della titolarità della posizione di garanzia.
La responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento di altri che presenti i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile. Peraltro, in ogni caso, nell’ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento di altri destinatari degli obblighi di prevenzione, che abbiano dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento.
Tale principio, non è altro che l’esplicazione in tema di infortuni sul lavoro, del principio dell’equivalenza delle cause accolto dal nostro ordinamento penale (art. 41 c.p.), secondo il quale il nesso causale può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma e successiva, rispetto alla quale la precedente sia da considerare tamquam non esset e trovi nella condotta precedente solo l’occasione per svilupparsi.
Da queste premesse, non è sindacabile la sentenza impugnata laddove afferma che, pur volendo prescindere dal passaggio in giudicato della pronuncia liberatoria nei confronti del progettista e del direttore dei lavori, la responsabilità dell’appaltatore non è affatto esclusa da quella propria del direttore dei lavori e da quella del progettista della struttura, ma si aggiunge ad esse in modo autonomo e distinto nella concatenazione causale dell’evento.
Analoghe considerazioni valgono con riferimento agli eventuali profili di responsabilità dei proprietari dell’immobile, che non risultano essere mai stati coinvolti nel procedimento penale e che, solo secondo l’assunto difensivo, sarebbero gli unici responsabili dell’evento, in quanto avrebbero dato corso al pericolosissimo intervento di straordinaria manutenzione del fabbricato piuttosto che affrontare i costi, notevolmente maggiori, di demolizione e ricostruzione dello stesso.
Sul punto si osserva che la disciplina dei contratti di appalto, come quella dei contratti di opera e di subappalto (cfr., ora, il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26, ma ribadendo principi già affermati nella normativa di settore), è molto rigorosa, dimostrando con chiarezza l’intendimento del legislatore di assicurare al massimo livello un ambiente di lavoro sicuro, con conseguente “estensione” dei soggetti onerati della relativa “posizione di garanzia” nella materia prevenzionale. Tale normativa costituisce, del resto coerente sviluppo del principio (di cui al generalissimo disposto dell’art. 2087 c.c., comportante l’obbligo a carico del datore di lavoro di garantire le migliori condizioni di sicurezza Dell’ambente di lavoro), in forza del quale il destinatario degli obblighi di prevenzione è costituito garante non solo dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale del prestatore di lavoro ma anche di persona estranea all’ambito imprenditoriale, purchè sia ravvisabile il nesso causale tra l’infortunio e la violazione della disciplina sugli obblighi di sicurezza.
Alla luce di tale principio si palesa infondato anche il quinto motivo con il quale il ricorrente lamenta l’erronea applicazione dell’aggravante prevista dal secondo comma dell’art. 589 c.p., comma 2.
La censura tralascia di considerare, come sopra accennato, che le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori (e solo i lavoratori) possano subire danni nell’esercizio della loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono nei cantieri o comunque in luoghi ove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi. Le disposizioni prevenzionali sono quindi da considerare emanate nell’interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell’impresa.
Con la conseguenza che, in caso di lesioni e di omicidio colposi, perchè possa ravvisarsi l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 c.p.: in tale evenienza, dovrà ravvisarsi l’aggravante di cui all’art. 589 c.p., comma 2, e art. 590 c.p., comma 3, nonchè il requisito della perseguibilità d’ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex art. 590 c.p., u.c., anche nel caso di soggetto passivo estraneo all’attività ed all’ambiente di lavoro, purchè la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell’infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante e purchè, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi (v. Sez. 4, 10 novembre 2005, Proc Trento in proc. Sartori e Sez. 3, 29 novembre 2007, Sava).
La decisione gravata è, pertanto, corretta sotto il profilo della individuazione dell’aggravante della violazione della normativa antinfortunistica ex art. 589 c.p.p., comma 2, siccome adottata in piena aderenza ai principi sopra ricordati, giacchè è stato inconfutabilmente accertato che la morte della giovane B., che si trovava al piano seminterrato dell’immobile, fu causata da porzioni di materiale inerte staccatasi a seguito del crollo dell’edificio, che la colpirono alla testa.
Infondato è anche l’ultimo motivo, con il quale si lamenta l’erroneità della decisione del giudice di appello che aveva negato la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale attraverso l’espletamento di una nuova perizia tecnica diretta ad accertare le cause del crollo.
Nel giudizio d’appello, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale è istituto di carattere eccezionale, in relazione al quale vale la presunzione che l’indagine istruttoria abbia ormai raggiunto la sua completezza nel dibattimento svoltosi innanzi al primo giudice.
L’art. 603 c.p.p., comma 1, non riconosce carattere di obbligatorietà all’esercizio del potere del giudice d’appello di disporre la rinnovazione del dibattimento, anche quando è richiesta per assumere nuove prove, ma vincola e subordina tale potere, nel suo concreto esercizio, alla rigorosa condizione che il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (v. ex pluribus Sezione 4, 24 giugno 2008, P.g. ed altro in proc. Marazzita).
In una tale prospettiva, se è vero che il diniego dell’eventualmente invocata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale deve essere spiegato nella sentenza di secondo grado, la relativa motivazione (sulla quale nei limiti della illogicità e della non congruità è esercitabile il controllo di legittimità) può anche ricavarsi per implicito dal complessivo tessuto argomentativo, qualora il giudice abbia dato comunque conto delle ragioni in forza delle quali abbia ritenuto di potere decidere allo stato degli atti.
Ciò che nella specie deve ritenersi essersi verificato, avendo il giudice di merito esplicitato con adeguata chiarezza il proprio convincimento sulle cause del crollo, tanto da rendere superfluo ed inutile un ulteriore approfondimento.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Roma, 6. 11.2009. Deposito 17.11.2009