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Cass. pen. sez. IV, 10 marzo 2009, n. 17634

Cass. pen.  sez. IV, 10 marzo 2009, n. 17634

La sentenza si segnala in particolare per i seguenti enunciati:

Essendo egli, infatti, responsabile dei lavori, in capo a lui si concretizzava una posizione di garanzia che gli imponeva di attivarsi per predisporre e far osservare i presidi di sicurezza richiesti dalla legge, nella esecuzione di quei lavori dei quali egli era, appunto, responsabile. La circostanza che vi fossero anche un “coordinatore della sicurezza in fase di progettazione” e un “coadiutore della sicurezza in fase di esecuzione” non comportava affatto il venir meno di tale posizione di garanzia: trattasi, invero, di posizioni autonome ed indipendenti, che tra loro concorrono e, quindi, non si escludono. La considerazione, poi, che egli all’epoca dei fatti “svolgeva l’attività di agricoltore” e “non dispone(va) di alcuna specifica capacità tecnica” non lo esime affatto da responsabilità “sotto il profilo soggettivo”, ma semmai rende più apprezzabili i profili di colpa, essendo evidente che la sua addotta mancanza assoluta di competenze al riguardo gli avrebbe dovuto imporre di astenersi da un compito che quelle competenze richiedeva, ed é quindi del tutto improprio il richiamo all’art. 5 c.p. ed alla sentenza della Corte Costituzionale n. 364/1988.

(OMISSIS)

FATTO

1.  Il 22 febbraio 2007 la Corte di Appello di Milano confermava (per quanto qui interessa) la sentenza in data 9 maggio 2005 del Tribunale della stessa città, con la quale P.B., C. L.A. e S.G., riconosciute loro le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante contestata, erano stati condannati a pene ritenute di giustizia (con i doppi benefici di legge), nonché al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, cui venivano assegnate delle provvisionali, per imputazione di cui all’art. 589 c.p..

Ricostruivano in fatto i giudici del merito che il 30 novembre 2001 M.M., dipendente della ditta “Salfer”, era intento, su di una impalcatura, a montare degli infissi in uno stabile e, in tale frangente, era caduto nel vuoto da un’altezza di due o tre metri, decedendo per le lesioni riportate (trauma cranio - encefalico da precipitazione). La struttura in costruzione era costituita da un edificio su due piani realizzato con colonne in mattone; un’impennata di vetro avrebbe chiuso lo spazio tra due colonne e tale impennata andava sostenuta da telai metallici. M. stava montando l’ultimo telaio di quella facciata ed aveva iniziato a montare il traverso orizzontale inserito tra i due montanti verticali; con un avvitatore elettrico doveva fissare quel traverso per il tramite di viti autofilettanti. Il ponteggio era stato montato all’esterno e non consentiva all’operaio di trovarsi in posizione frontale rispetto al lavoro che doveva eseguire; egli, quindi, per effettuare la relativa operazione, si era portato quasi totalmente all’esterno del ponteggio. Il giudice di prime cure aveva richiamato acquisite risultanze processuali, dalle quali si evinceva, tra l’altro, che il M. “si trovava praticamente abbassato a dover affilettare, cioé inserire le viti autofilettanti nel montante orizzontale, portandosi quasi totalmente all’esterno e in posizione praticamente di precario equilibrio. Dovendo uscire quasi totalmente con il corpo dal ponteggio su cui era, e non avendo una tavola fermapiedi che riduce la luce tra il corrente intermedio ed il piano di calpestio, dovendo fare forza con l’avvitatore, ha perso l’equilibrio ed é precipitato ... Dovendo far forza, si sarà appoggiato sul traversino che era fermato solo dai bottoncini”. “Il ponteggio in questione era privo di alcuni parapetti e delle tavole fermapiede, non era ancorato alla parete e mancava delle basi necessarie per garantire la stabilità dell’appoggio al terreno. In cantiere non erano presenti i disegni esecutivi del ponteggio previsti obbligatoriamente dalla legge e non erano rinvenibili i dispositivi di protezione individuale, mentre era stato sequestrato ... un casco rinvenuto nelle vicinanze del corpo dell’infortunato .... Il ponteggio fornito al lavoratore non era idoneo allo svolgimento dell’attività a lui demandata perché montato all’interno; ciò non consentiva di operare in condizioni di sicurezza, costringendo l’operatore a compiere manovre pericolose. L’operazione avrebbe dovuto compiersi servendosi di una piattaforma autosollevante che avrebbe consentito di svolgere il lavoro sempre in posizione frontale .... M. non indossava dispositivi di protezione, cinture di sicurezza o caschi mai consegnati agli operatori ...”.

Tanto richiamato, il giudice di primo grado aveva ritenuto la responsabilità dei tre imputati osservando che P., responsabile dei lavori per conto della committente, “Obiettivo Garden”, “non aveva compiuto alcuna valutazione o verifica delle capacità tecnico - professionali delle ditte che operavano nel cantiere. Era emersa in istruttoria la genericità dei piani operativi di sicurezza delle società operanti in cantiere e l’inesistenza del piano di coordinamento reale. Difettava uno studio valutativo dei problemi e rischi derivanti dalle sovrapposizioni delle attività delle ditte operanti in cantiere. I piani di sicurezza esistenti, benché carenti, erano stati accettati dalla committente e da P., responsabile dei lavori, e ciò in violazione del D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 3, comma 2,....

T., in fase di progettazione per conto del committente, aveva evidenziato la carenza di tali piani...”.

Quanto a C., questi, “per sua ammissione, aveva dichiarato di aver provveduto al montaggio del ponteggio in questione” e “non valeva ad escludere la responsabilità penale dell’imputato il fatto che il ponteggio era stato realizzato in quel modo proprio su richiesta del M., dal momento che il rimprovero mosso all’imputato consisteva proprio nell’aver realizzato il montaggio del ponteggio in violazione di legge perché privo dei requisiti di sicurezza”.

Quanto a S.G., infine, dirigente della società “Salfer”, responsabile del servizio di protezione e prevenzione e per la sicurezza, aveva fornito ai lavoratori “una attrezzatura non adeguata”. Egli aveva “l’obbligo legale di controllare che i propri dipendenti si trovassero ad operare in cantiere in condizioni di sicurezza”, con “la necessità di pianificare già in sede di progettazione le difficoltà operative, predisponendo gli idonei strumenti per garantire l’esecuzione delle lavorazioni in condizioni di sicurezza. Non erano stati studiati possibili accorgimenti tecnici per evitare la situazione di rischio grave che aveva causato l’infortunio mortale, situazione generatasi a seguito della mancata predisposizione di un ponteggio collocato sul lato esterno del prefabbricato.

La Corte territoriale confermava “il giudizio di responsabilità nei termini già declinati da giudice di primo grado con motivazione esauriente e convincente da intendersi richiamata in questa sede, dal momento che i rilievi svolti dalla difesa non appaiono condivisibili”: e su questi si soffermava, dando contezza della ritenuta non condivisibilità.

2.0 Avverso tale sentenza hanno proposto ricorsi i suindicati imputati, P. e S. per mezzo dei rispettivi difensori, C. personalmente.

2.1      P.B. denunzia:

a) premesso che egli, responsabile dei lavori, “poiché non possedeva i requisiti e le capacità tecniche di cui al D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 10”, aveva designato quale coordinatore della sicurezza in fase di progettazione l’arch. B.F. e quale coadiutore della sicurezza in fase di esecuzione l’arch. T.M., deduce che “appare del tutto incompatibile con la previsione della ripartizione degli obblighi di prevenzione l’imposizione di un controllo continuo sulla attività dei tecnici designati ... Il D.Lgs. n. 494 del 1996 non si limita ad indicare nominativamente una pluralità di soggetti responsabili, ma provvede ad indicare analiticamente i poteri necessari a sostanziare la qualifica operando quella ripartizione di obblighi di prevenzione che di norma é demandata al datore di lavoro ... Una volta che il responsabile dei lavori ha effettuato la nomina, l’adempimento degli obblighi ascritti graverà ex lege solo sul tecnico designato ... Il D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 6, allorquando attribuisce al responsabile dei lavori le relative responsabilità connesse alla verifica dell’adempimento, da parte dei soggetti nominati degli obblighi di cui agli artt. 4 e 5, ... ha inteso ribadire che non é il mero atto formale dell’attribuzione di una qualifica a giustificare l’esonero della responsabilità del designante, bensì la scelta di un soggetto dotato dei requisiti idonei ad adempiere efficacemente ed autonomamente ai precetti penalmente sanzionati ... Orbene, poiché nella fattispecie che ci occupa il responsabile dei lavori ... effettuò da un lato validamente la nomina dei coordinatori della progettazione e della sicurezza ... a soggetti palesemente idonei allo svolgimento dei compiti assegnati e da altro lato mai si ingerì nelle attività dei designati..., su di esso non gravava un obbligo giuridico di impedimento dei reati (art. 40 c.p.)...”;

b) “il reato contestato al P.B. avrebbe comunque dovuto essere escluso sotto il profilo soggettivo per assoluta mancanza di volontarietà del fatto e per la sua non conoscenza .... Egli all’epoca dei fatti svolgeva l’attività di agricoltore alle dipendenze della “Obiettivo Garden” ed ha scusabilmente fatto affidamento alla rispondenza del suo comportamento ai parametri legali vigenti all’epoca dell’intervento edilizio e non disponendo di alcuna specifica capacità tecnica si é rivolto a ditte e professionisti che apparivano garantirgli il rispetto della normativa vigente. Egli invero aveva una rappresentazione distorta della realtà e perciò versava in errore, l’ignoranza del P. invero era inevitabile, ove si consideri il suo status soggettivo, e quindi incolpevole (art. 5 c.p. - Corte Cost. sentenza n. 364/1988)”.

2.2      S.G., dal canto suo, denunzia:

a) il vizio di violazione di legge, in relazione alla “mancata notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, presso il domicilio eletto”. Deduce che egli aveva eletto domicilio presso lo studio dell’avv. Raveglia Laura, in Como, Via Odescalchi, 30; che il 19 gennaio 2005, a seguito del fallimento della “Salfer s.r.l.”, l’avv. Raveglia aveva comunicato alla “Salfer” “la rinuncia a tutti i mandati in corso, fra cui quello relativo al procedimento penale in esame. Non consta allo scrivente che il prevenuto abbia, peraltro, modificato il domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Raveglia” e “negli atti di causa manca ... qualsiasi documento attestante tale mutamento di domicilio. Il 22.05.2006, quindi, inspiegabilmente - allo stato - tutti gli avvisi di fissazione d’udienza avanti la Corte d’Appello di Milano venivano notificati al S.G. presso lo studio dell’unico difensore rimasto, al quale non risulta che l’odierno ricorrente avesse mai eletto domicilio ...”, tanto sostanziando “nullità ... di ordine generale ex art. 178 c.p.p., lett. c), e art. 179 c.p.p., comma 1, comprensiva non solo del caso in cui manchi il decreto di citazione, ma anche di quello in cui difetti o sia invalida la sua notificazione”;

b) vizi di violazione di legge e di motivazione, per “mancanza, manifesta illogicità della motivazione, travisamento del fatto”.

Premesso che “é notevole, anzitutto, che la motivazione della decisione qui impugnata si fondi, massimamente, sul contributo della testimonianza dell’operaio F.L., grande amico del M., in vita di questi, e, in parte, anche su quelle rilasciate dall’operante dell’ASL A.M.”, e che “l’elemento principe in diretta correlazione causale con l’infortunio per cui é processo é l’assunta assenza della tavola fermapiede, che avrebbe impedito la caduta del M.”, assume che avrebbe dovuto, di contro, ritenersi che “la tavola fermapiede c’era, ed era stata rimossa dal M. per propria comodità ...”, a tale conclusione avendo dovuto indurre l’esame di alcune foto allegate in atti, in particolare quella n. (OMISSIS), al riguardo richiamandosi “la nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c), ... in ragione delle modifiche apportate dalla L. n. 46 del 2006, art. 8 ...”. Soggiunge che la vittima “era un artigiano montatore, a detta di tutti molto esperto ...”; che la “assoluta autonomia del M.” avrebbe dovuto ritenersi da alcune circostanze processuali, che indica, sicché illegittimamente era stato ritenuto che fosse un lavoratore subordinato; che, contrariamente all’assunto della Corte territoriale, egli aveva esercitato la dovuta attività di controllo, giacché “si recava nei cantieri di (OMISSIS), tra cui quello in questione, almeno due - tre volte alla settimana ...” e “si recò nel cantiere di via (OMISSIS) proprio il giorno prima dell’infortunio .... Nessuna responsabilità, pertanto, avrebbe dovuto ritenersi ascrivibile in capo al S. G., tanto più che l’infortunio ... deve essere addebitato a colpa esclusiva del M. ...; in capo al S. non sussisteva alcun obbligo di vigilanza e di controllo su quell’artigiano, che operava come autonomo prestatore d’opera...”;

c)  il vizio di violazione di legge e di motivazione, in relazione all’art. 133 c.p..

Deduce che “nella statuizione pronunciata dalla Corte territoriale nessuna parola viene spesa in ordine ai criteri di commisurazione della pena in concreto inflitta al prevenuto, se non un mero richiamo per relationem alla motivazione del giudice di prime cure (pure silente sul punto)”;

d) vizi di violazione di legge e di motivazione, “in relazione all’art. 600 c.p.p., commi 2, 3”. Illegittimamente - assume il ricorrente - era stata disattesa la richiesta di revoca o sospensione della provvisionale.

Formula, infine, “richiesta di sospensione dell’esecuzione della condanna civile ai sensi dell’art. 612 c.p.p.”.

2.2.1          S.G. ha prodotto memorie, per mezzo del difensore, con le quali deduce che le parti civili, G.G.C. (in proprio e quale esercente la potestà sulla figlia minore M. M.) e M.S., hanno dapprima intimato atto di precetto “in forza delle precedenti sentenze del Tribunale penale di Milano ... e della Corte di Appello di Milano ...”, ed hanno poi “promosso causa civile, sempre nei confronti di S.G., radicata avanti il Tribunale di Milano ...”: da tanto “é scaturita la revoca della costituzione di parte civile”, ai sensi dell’art. 82 c.p.p., comma 2; allega copia dell’atto di precetto e dell’atto di citazione (nei confronti, tra gli altri, anche di P.B. e C. L.A.).

2.3.0          C.L.A., infine, denunzia:

a) il vizio di motivazione “sul punto relativo alla mancanza delle tavole fermapiedi ...”. Assume che “tutti i testimoni esaminati nel corso dell’istruttoria di primo grado, eccezione fatta per i testi dell’accusa (gli ufficiali dell’ASL) hanno riconosciuto chiaramente dalle fotografie del ponteggio agli atti la presenza delle suddette ...”;

b) il vizio di motivazione “sul punto relativo alla quantificazione della provvisionale con particolare riferimento alla voce di danno ture proprio”. Rileva che “la somma in oggetto é assolutamente enorme alla luce della pratica giudiziaria e delle tabelle comunemente applicate ...”.

2.3.1 Tale ricorrente ha prodotto, per mezzo del difensore, una “memoria difensiva”, con la quale ulteriormente deduce:

c)  “erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione, relativamente alla individuazione della condotta in violazione di regole cautelari in materia antinfortunistica (art. 43 c.p.)”. Assume che “questo aspetto ... - e quindi la colpa specifica - non é adeguatamente motivato dalla Corte di Appello di Milano, soprattutto in relazione ad alcuni elementi probatori emersi nel corso del giudizio di merito ...”;

d) “mancata o contraddittoria valutazione di elementi probatori che comprovano la presenza ab origine delle tavole fermapiedi”;

e) “manifesta illogicità della motivazione, relativamente alla individuazione di un dovere di “mantenere in efficienza” le opere provvisionali, successivamente alla loro installazione. Assenza di autonomi poteri di controllo sulla sicurezza del lavoro e di valutazione del rischio”;

f)   “illogicità della motivazione sul punto relativo alla dichiarazione di conformità contenuta nel contratto di appalto e sulla presenza di una clausola di esonero della responsabilità e in merito alla rilevanza del criterio di riparto del rischio d’impresa”;

g) “erronea applicazione dell’art. 41 c.p. e dell’art. 40 c.p. in tema di reati colposi. Assenza di un nesso di causalità tra condotta colposa e evento”.

2.4      Memoria hanno prodotto anche le parti civili, chiedendo respingersi l’istanza inibitoria ex art. 612 c.p.p..

2.5      Questa Suprema Corte, con ordinanza del 16 aprile 2008, ha rigettato la predetta istanza formulata ex art. 612 c.p.p..

DIRITTO

3. Il ricorso di P.B. é infondato.

Essendo egli, infatti, responsabile dei lavori, in capo a lui si concretizzava una posizione di garanzia che gli imponeva di attivarsi per predisporre e far osservare i presidi di sicurezza richiesti dalla legge, nella esecuzione di quei lavori dei quali egli era, appunto, responsabile. La circostanza che vi fossero anche un “coordinatore della sicurezza in fase di progettazione” e un “coadiutore della sicurezza in fase di esecuzione” non comportava affatto il venir meno di tale posizione di garanzia: trattasi, invero, di posizioni autonome ed indipendenti, che tra loro concorrono e, quindi, non si escludono. La considerazione, poi, che egli all’epoca dei fatti “svolgeva l’attività di agricoltore” e “non dispone(va) di alcuna specifica capacità tecnica” non lo esime affatto da responsabilità “sotto il profilo soggettivo”, ma semmai rende più apprezzabili i profili di colpa, essendo evidente che la sua addotta mancanza assoluta di competenze al riguardo gli avrebbe dovuto imporre di astenersi da un compito che quelle competenze richiedeva, ed é quindi del tutto improprio il richiamo all’art. 5 c.p. ed alla sentenza della Corte Costituzionale n. 364/1988.

3.1      Egualmente infondato é il ricorso di S.G..

Per quanto riguarda, invero, il primo profilo di censura, v’é da considerare che ha già chiarito questa Suprema Corte che, in tema di notificazione della citazione all’imputato, la nullità assoluta ed insanabile di cui all’art. 179 c.p.p., ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione dell’atto sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto; tale nullità non ricorre, invece, nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue la applicabilità della sanatoria di cui all’art. 184 c.p.p. (Cass., Sez. Un., 27.10.2004, n. 119/2005).

Più specificamente s’é, altresì, chiarito che é nulla la notificazione eseguita a norma dell’art. 157 c.p.p., comma 8 bis, presso il difensore di fiducia, qualora l’imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni. Trattasi, tuttavia, di nullità di ordine generale a regime intermedio, che deve ritenersi sanata quando risulti provato che non ha impedito all’imputato di conoscere l’esistenza dell’atto e di esercitare il diritto di difesa, ed é, comunque, priva di effetti se non dedotta tempestivamente, essendo soggetta non solo alla sanatoria speciale di cui al precitato art. 184 c.p.p., comma 1, ma anche alle sanatorie generali di cui all’art. 183, alle regole di deducibilità di cui all’art. 182 ed ai termini di rilevabilità di cui all’art. 180 c.p.p. (Cass., Sez. Un., 27.3.2008, n. 19602).

Nella specie, rilevandosi che gli atti “venivano notificati al L. S.G. presso lo studio dell’unico difensore rimasto”, piuttosto che presso l’altro difensore che aveva rinunciato “a tutti i mandati in corso, fra cui quello relativo al procedimento penale in esame”, il ricorrente neppure specificamente deduce che tanto abbia impedito a lui di aver avuto conoscenza degli atti, la cui oggettiva riconoscibilità deve ritenersi maggiormente assicurata dal rapporto fiduciario in atto con “l’unico difensore rimasto”, piuttosto che con quello che aveva rinunciato “a tutti i mandati in corso”; e non deduce affatto che tale eccezione sia stata sollevata nel giudizio di appello, di tanto non dando affatto atto neppure la sentenza impugnata.

Quanto al secondo motivo di doglianza, deve riconoscersi che i giudici del merito hanno dato congrua e puntuale contezza (pagg. 15 e ss. della sentenza impugnata) del percorso argomentativo seguito nel pervenire alla resa statuizione, spiegando anche perché “vanno disattese le argomentazioni difensive in ordine alla pretesa concorrente responsabilità di M.” (del quale oggi il ricorrente prospetta la “colpa esclusiva”), e tale argomentare si sottrae a rinvenibili vizi di illogicità, che, peraltro, la norma vuole dover essere manifesta, cioé coglibile immediatamente, ictu oculi. Per il resto, proponendo in sostanza il ricorrente un diverso apprezzamento delle risultanze processuali valutate dai giudici del merito, pure deve rilevarsi che, in tema di sindacato del vizio di motivazione, compito del giudice di legittimità non é quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass., Sez. Un., 13.12.1995, n. 930/1996); id., Sez. Un., 31.5.2000, n. 12). D’altra parte, il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o - a seguito della modifica apportata all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 - da “altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame”, il che vuoi dire - quanto al vizio di manifesta illogicità - per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal giudice é assolutamente carente sul piano logico e che, per altro verso, questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o di un altro iter, quand’anche in tesi egualmente corretti sul piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano ad una diversa lettura o interpretazione, ancorché munite, in tesi, di eguale crisma di logicità (cfr. Cass., Sez. Un., 27.9.1995, n. 30).

V’é da aggiungere che, richiamando il ricorrente “la nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c)”, le innovazioni al riguardo apportate dall’ari. 8 della L. 20 febbraio 2006, n. 46, concernono la previsione della contraddittorietà della motivazione medesima, che si aggiunge alla mancanza o manifesta illogicità della stessa, e la previsione che tale vizio possa risultare non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche “da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.

Sotto il primo di tali profili, si richiede che la sentenza non sia, in sostanza, internamente contraddittoria, cioé che non sia inficiata da decisive incongruenze tra parti diverse della stessa o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute:

vizio, di contraddittorietà, che, per vero, era anche precedentemente sussumibile nella previsione della illogicità della motivazione, dovendosi tuttavia rilevare che l’aggettivazione di “manifesta” appare nel nuovo testo novellato riferita alla sola illogicità, non anche alla “contraddittorietà”, che può, dunque, essere rilevata, ancorché non “manifesta”.

Quanto al secondo dei succitati profili innovativi, che costituisce il contenuto più rilevante della novella legislativa, si richiede che la motivazione non sia incompatibile con altri atti del processo:

e poiché tale incompatibilità deve essere idonea a caducare o inficiare il processo logico seguito dal giudice, il vizio deve essere tale da vanificare, appunto, o radicalmente inficiare sotto il profilo logico il percorso argomentativo esplicitato dal giudice del merito. Non é sufficiente, quindi, che gli atti del processo indicati dal ricorrente siano semplicemente contrastanti con diversi accertamenti e specifiche valutazioni del giudice di merito, o con la sua ricostruzione complessiva e conclusiva dei fatti e delle responsabilità dell’imputato, né che siano astrattamente idonei a fornire un apprezzamento diverso e, in tesi, più persuasivo di quello fatto proprio dal giudice. Occorre, invece, che il contenuto degli atti del processo cui fa riferimento il ricorrente, sia di per sé idoneo a determinare una insanabile disarticolazione dell’intero ragionamento giustificativo esplicitato, nell’intero contesto motivazionale di quest’ultimo, compito del giudice di legittimità rimanendo la valutazione unitaria sulla effettiva esistenza di una motivazione e sulla complessiva, conclusiva, logicità della sentenza. Se così non fosse, il giudice di legittimità diverrebbe, inammissibilmente, altro giudice del merito. La incompatibilità della motivazione con specifici atti del processo, dunque, non può consistere, come nella specie prospetta il ricorrente, nella mera diversa valutazione del dato oggettivo acquisito, nel suo apprezzamento di merito.

Quanto al terzo motivo di ricorso, la sentenza di primo grado aveva ritenuto congrua la pena inflitta a tale ricorrente; ed i giudici dell’appello, richiamate le specifiche doglianze dell’imputato in ordine al trattamento sanzionatorio, hanno confermato la congruità del giudizio di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e l’aggravante contestata: anche tale divisamente, assunto nel legittimo esercizio del potere che al riguardo la legge riserva al giudice del merito, non appare censurabile in questa sede di legittimità.

Sul quarto motivo di ricorso, concernente la revoca o la sospensione della provvisionale, la definitività della sentenza che viene oggi resa rende superata ed assorbita la relativa questione.

Per quel che concerne, infine, la questione sollevata con le memorie di tale ricorrente, concernente l’addotta revoca della costituzione di parte civile, deve rilevarsi che la costituzione di parte civile non può intendersi tacitamente revocata se la parte propone davanti al giudice civile la domanda per la quantificazione del risarcimento del danno (come, in sostanza, deve ritenersi nel caso di specie) dopo aver ottenuto in sede penale l’affermazione del diritto ad ottenerlo, ancorché la relativa decisione non sia passata in giudicato (Cass., Sez. 4^, 24.5.2007, n. 43374; id., Sez. 5^, 7.10.1998, n. 12744).

3.2 Privo di fondamento, infine, deve ritenersi anche il ricorso di C.L.A..

Quanto, invero, al primo motivo di doglianza, “sul punto relativo alla mancanza delle tavole fermapiedi”, puntualmente sul punto ha motivato la sentenza impugnata (pag. 12), dovendo per il resto richiamarsi quanto pure si é già detto in ordine ai limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato.

Sulla quantificazione della provvisionale, é sufficiente richiamare quanto anche al riguardo si é già detto.

Tale ricorrente, come s’é innanzi chiarito, ha prodotto una memoria difensiva, con la quale enuncia motivi nuovi.

Al riguardo va osservato che ha più volte chiarito questa Suprema Corte che i motivi nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati indicati nell’originario atto di gravame, ai sensi dell’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. a), (ex ceteris, Cass., Sez. Un., 25.2.1998, n. 4683; id., Sez. 2^, 4.11.2003, n. 45739; id., Sez. 5^, 22.9.2005, n. 45725; id., Sez. 6^, 20.5.2008, n. 27325); sicché, nella specie, sono, appunto, inammissibili quei motivi (sopra indicati) che non afferiscono ai punti oggetto dell’originario atto di gravame; peraltro ed in ogni caso, la sentenza impugnata, rilevando, tra l’altro, che “Cadessi in quanto realizzatore dell’impalcatura é il destinatario degli obblighi posti dalle norme del D.P.R. n. 164 del 1956 contestategli”, ha dato ampia, puntuale e del tutto logicamente persuasiva contezza dei profili di colpa ravvisati nella condotta di tale ricorrente.

4. I ricorsi vanno, dunque, rigettati, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.

Roma, 10.3.2009. Deposito 24.4.2009