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Cass. pen. sez. IV, 8 aprile 2008, n. 22615

Cass. pen. sez. IV, 8 aprile 2008, n. 22615

La sentenza si segnala in particolare per i seguenti enunciati:

… Peraltro, come più volte questa Corte ha avuto modo di ribadire (cfr. ex plurimis Cass. 4^ 19 aprile 2007, Scanu, RV 237007), occorre un vero e proprio contegno abnorme, che esuli dalle normali operazioni produttive, perchè la condotta del lavoratore faccia venire meno la responsabilità del datore di lavoro. In particolare, la condotta del lavoratore, per giungere ad interrompere il rapporto di causalità (tra condotta colposa del datore di lavoro ed evento lesivo) e ad escludere, in definitiva, la responsabilità del garante, deve configurarsi come un fatto assolutamente eccezionale, del tutto al di fuori della normale prevedibilità ...

… Si aggiunga che le norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, avendo lo scopo di impedire l’insorgere di pericoli, anche se del tutto eventuali e remoti, in qualsiasi fase del lavoro, sono dirette a tutelare il lavoratore anche contro gli incidenti derivanti da un suo comportamento colposo e dei quali, conseguentemente, l’imprenditore è chiamato a rispondere per il semplice fatto del mancato apprestamento delle idonee misure protettive, anche in presenza di condotta deviante del lavoratore (v. Cass. 3^ 20 ottobre 1982, Vedovato, RV 158239-41; Cass. 4^ 3 ottobre 1990, Mandala, secondo cui il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di apportare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure il dipendente ne faccia effettivamente uso; Cass. 4^ 23 giugno 2005, Minotti; Cass. 4^ 29 settembre 2005, Riccio) …

(OMISSIS)

FATTO

1. Con sentenza in data 10 luglio 2002 il Tribunale di Matera dichiarava D.S.A. (direttore dei lavori della S.r.l. SNIE), L.F. (assistente tecnico della stessa società) e D.G.G. (capo cantiere) colpevoli del delitto di cui all’art. 589 c.p. per avere, in (OMISSIS), cagionato per colpa (violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) la morte dei lavoratori N.N. e B.V.N., avvenuta durante l’esecuzione dei lavori di impermeabilizzazione del pavimento del piano interrato di un appartamento di proprietà di CO.Ga.. Agli imputati si addebitava di aver omesso di informare gli operai sui rischi connessi all’uso dei materiali utilizzati (D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 352) e di predisporre, all’interno dei locali in cui N. e B. lavoravano, gli accorgimenti idonei ad impedire la formazione di concentrazioni di vapori o gas pericolosi.

Il Tribunale condannava - riconosciuta la sussistenza delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p., ritenute equivalenti rispetto alla circostanza aggravante contestata - D. S. alla pena di mesi otto di reclusione, L. e D. G. alla pena di mesi sei di reclusione.

2.  Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Potenza confermava le condanne degli imputati.

2.1. Avuto riguardo agli specifici punti di gravame contenuti nei ricorsi, vanno riepilogati alcuni aspetti della vicenda, per come riportati nel testo della sentenza impugnata.

La SNIE aveva ricevuto dal CO. l’incarico di eliminare le infiltrazioni presenti nel sottoscala dell’appartamento.

Si trattava di apporre una guaina sul pavimento dove era stato in precedenza steso bitume liquido.

Mentre il N. e il B. si trovavano all’interno dello scantinato, si era verificata la deflagrazione dei residui pesanti del bitume (di tipo PRIME) accumulatisi sul pavimento nel corso della mattinata.

La deflagrazione era stata causata dall’accensione, da parte di uno degli operai deceduti, di un “cannello di fusione”.

La Corte di appello giustificava l’affermazione di responsabilità dei tre imputati nei termini seguenti.

2.2. Con riguardo al D.G. osservava trattarsi del preposto alla “gestione delle squadre di lavoro”, diretto interlocutore dei dirigenti della SNIE. Secondo le dichiarazioni del testimone S.F., collega delle due vittime, e dell’ispettore del lavoro CI., il D.G. svolgeva funzioni di coordinamento e di organizzazione del lavoro ed aveva “un certo margine di autonomia”, che gli aveva, nell’occasione, consentito di formare le due squadre di lavoratori impegnate in luogo in due distinte operazioni, quella di pavimentazione e quella di impermeabilizzazione.

D.G. era, dunque, destinatario dei precetti di cui al D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, artt. 4 e 5 e, come tale, tenuto ad assicurare che il lavoro si svolgesse secondo standards di sicurezza ed a vigilare affinchè fossero adottate le precauzioni predisposte.

Nell’occasione, invece, il D.G. non aveva imposto, e neppure consigliato, particolari cautele, nonostante i componenti della squadra avessero manifestato “un qualche dubbio sulla pericolosità del lavoro”.

2.3. Con riferimento al D.S., la Corte territoriale rilevava che il medesimo rivestiva la qualifica di direttore tecnico dei lavori di cantiere (munito altresì di procura generale di rappresentanza della società).

Il citato dipendente S.F. aveva dichiarato di averlo sempre considerato come il datore di lavoro.

Orbene, il predetto, in tale sua qualità, non aveva vigilato sulle dotazioni di cantiere, tollerando la presenza, a diretta portata degli operai, di materiale di lavoro come il PRIME, in assenza delle necessarie schede informative.

In altre parole, gli operai non erano stati informati del fatto che le pesanti evaporazioni susseguenti all’apertura del fusto di PRIME, se effettuata in ambiente chiuso, avrebbero potuto generare una situazione di rischio.

E detta situazione era stata “acuita” dal fatto che il bidone fosse stato lasciato aperto per tutta la mattinata, cosicchè i residui gassosi avevano cosparso il pavimento.

Al D.S. andava addebitata, secondo la Corte, anche l’assoluta carenza di mezzi di protezione e di sicurezza, non essendo stati predisposti nè estintori nè maschere protettive per gli occhi. E, in ogni caso, nessuno aveva detto agli operai di aerare il locale, caratterizzato, tra l’altro, da un’unica finestra molto piccola (situazione che già di per sè avrebbe consigliato di inibire l’uso di materiale infiammabile).

A maggior ragione, la preventiva adozione di strumenti indicatori della concentrazione di gas e di vapori avrebbe certamente evitato “l’inizio stesso dei lavori”.

Non era sostenibile, infine, che il lavoro fosse stato concordato, con il proprietario dell’immobile, non dalla SNIE ma dal solo D. G..

Risultava, invero, che il CO. si fosse recato persino a casa del D.S. per parlare del problema delle infiltrazioni e che l’imputato, nel (OMISSIS), avesse visionato i luoghi.

Ed era stato proprio il D.S. ad autorizzare D.G. e L. a ritirare dal CO. le chiavi dell’appartamento per dare inizio ai lavori.

Tra l’altro, quel tipo di intervento era stato programmato in relazione ad altri appartamenti (di diverse palazzine).

2.4. Quanto, infine, al L., la Corte di merito ricordava che lo stesso CO. aveva affermato trattarsi di uno dei dipendenti della SNIE ai quali si era rivolto per la soluzione del problema delle infiltrazioni.

Era stato il L. a ricevere le chiavi dell’appartamento dal CO. ed a consegnarle al D.G..

E nell’occasione aveva, tra l’altro, assicurato al proprietario di casa che i lavori sarebbero stati eseguiti.

In sostanza, la qualifica rivestita (assistente tecnico) e l’”ingerenza esercitata nello svolgimento dei lavori” imponevano di considerare il L. dirigente destinatario degli obblighi di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, citati artt. 4 e 5.

2.5. In relazione, infine, al trattamento sanzionatorio, la Corte di merito negava la chiesta prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata circostanza aggravante, richiamandosi alla “allarmante negligenza dimostrata da ciascuno degli imputati” ed alla “particolare gravità delle conseguenze procurate”.

3.  Avverso l’anzidetta sentenza hanno proposto ricorsi per cassazione gli imputati, per mezzo dei rispettivi difensori.

4.  Il difensore dell’imputato D.S. articola due motivi.

4.1.   Con il primo motivo, formalmente deducendo l’erronea applicazione del menzionato D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 4 e 5, si duole in sostanza del fatto che la Corte di merito non avrebbe considerato che l’evento si era verificato “in un irrilevante e temporaneo cantiere quale l’appartamento del CO.” in esecuzione di lavori mai commissionati alla SNIE ed in relazione ai quali non era richiesta la presenza di un direttore.

4.2.   Con il secondo motivo lamenta mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, avendo la Corte trascurato di considerare che il N. aveva di propria iniziativa utilizzato quel materiale, senza avere ricevuto “ordini da chicchessia”, tanto meno dal D.S..

La sentenza impugnata era, dunque, carente di motivazione proprio in ordine alla condotta tenuta dal lavoratore.

5.  Il difensore dell’imputato L. affida le proprie doglianze a quattro motivi.

5.1.   Con il primo motivo il difensore sostiene che la Corte avrebbe “travisato i fatti”, atteso che non era stato provato nè che i lavori fossero stati eseguiti dalla SNIE, nè che l’imputato, ricevendo le chiavi dal CO. e consegnandole al D.G., avesse di fatto ordinato a quest’ultimo di eseguire i lavori.

L. si era limitato, per conto della SNIE, ad effettuare ricerche finalizzate a reperire un cemento osmotico adatto a risolvere il problema.

Era illogico, pertanto, ritenere che avesse impartito l’ordine di effettuare quei lavori utilizzando materiale bituminoso.

5.2.   Con il secondo motivo lamenta vizio di motivazione non avendo la Corte considerato che le condotte omissive contestate al D.S. e al D.G. costituivano di per sè condizioni, necessarie e sufficienti, del verificarsi dell’evento.

Nè si comprende - prosegue il difensore - quale sarebbe stata “la responsabilità del L. in termini di rispetto della normativa sulla sicurezza del lavoro”.

5.3.   Con il terzo motivo del ricorso lamenta erronea applicazione della legge penale e, di nuovo, mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata “sotto il profilo del travisamento del fatto”.

In particolare, la sentenza è censurata nella parte in cui ritiene che l’imputato fosse soggetto destinatario degli obblighi derivanti dalla normativa antinfortunistica.

5.4.   Con l’ultimo motivo del ricorso si ribadiscono mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine al diniego della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata circostanza aggravante “nonostante fosse stata dimostrata l’imprudenza dei lavoratori deceduti”.

6.  Due motivi prospetta il difensore di D.G.G. il quale, peraltro, nella fase degli atti introduttivi del presente giudizio, ha prodotto certificazione da cui risulta che il proprio assistito è deceduto in (OMISSIS).

La morte, avvenuta prima della condanna definitiva, estingue, a norma dell’art. 150 c.p., il reato.

L’estinzione del reato determina, ai sensi dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. a), l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

DIRITTO

7.  Il ricorso presentato nell’interesse dell’imputato D.S. è inammissibile (resta, di riflesso, superata la richiesta dell’imputato di sospensione, ai sensi dell’art. 612 c.p.p., dell’esecuzione della condanna civile).

7.1.   Il primo motivo del ricorso è inammissibile, ex art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), perchè privo del requisito della specificità, risolvendosi nella semplice enunciazione del dissenso del deducente rispetto alle valutazioni, in fatto e in diritto, compiute dalla Corte di merito.

La doglianza è priva di contenuti di effettiva critica alla giustificazione della decisione impugnata, la quale ha peraltro adeguatamente motivato sia in ordine alla circostanza che il lavoro fosse stato commissionato alla SNIE, sia in ordine alla funzione in concreto svolta dal D.S..

Nè può, d’altra parte, il ricorrente pretendere che le sue generiche affermazioni possano condurre in questa sede a rinnovare la valutazione degli elementi probatori posti a base del giudizio.

Non considera, invero, il ricorrente che le ricostruzioni alternative, al pari delle censure sulla selezione e sull’interpretazione del materiale probatorio, non possono essere idonee ad accedere al giudizio di legittimità quando la motivazione sia, nei suoi contenuti fondamentali, coerente e plausibile.

E, al riguardo, va ribadito che la sentenza impugnata è adeguatamente argomentata, sia quanto alla ricostruzione storica e logica effettuata, sia quanto alla scelta ed alla valutazione degli elementi probatori utilizzati per l’affermazione di responsabilità.

Elementi - soprattutto quelli concernenti l’attività di fatto svolta dal D.S. e, in genere, il ruolo del medesimo (bene rappresentati dalle citate dichiarazioni rese dal dipendente S. e dal committente CO.: v. supra 2.3) - con i quali la difesa evita di confrontarsi.

7.2.   Il secondo motivo del ricorso è manifestamente infondato.

Le denunciate imprudenze dei lavoratori si risolvono nel tentativo di addossare ai medesimi la responsabilità dell’accaduto, mettendo in discussione la doverosità dell’adozione di misure tecniche ed organizzative adeguate per ridurre al minimo i rischi connessi al tipo di attività.

In altre parole, il ricorrente si limita a generiche considerazioni sulla regola cautelare la cui violazione gli è stata addebitata, per concentrare le proprie doglianze sulle condotte tenute dal N. e dal B..

Peraltro, come più volte questa Corte ha avuto modo di ribadire (cfr. ex plurimis Cass. 4^ 19 aprile 2007, Scanu, RV 237007), occorre un vero e proprio contegno abnorme, che esuli dalle normali operazioni produttive, perchè la condotta del lavoratore faccia venire meno la responsabilità del datore di lavoro. In particolare, la condotta del lavoratore, per giungere ad interrompere il rapporto di causalità (tra condotta colposa del datore di lavoro ed evento lesivo) e ad escludere, in definitiva, la responsabilità del garante, deve configurarsi come un fatto assolutamente eccezionale, del tutto al di fuori della normale prevedibilità.

In altre parole, il datore di lavoro è esonerato da responsabilità soltanto quando il comportamento del lavoratore sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente che sia stato posto in essere da quest’ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - oppure che, pur rientrando nelle mansioni che gli sono proprie, sia consistito in qualcosa di radicalmente lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (v. ex plurimis Cass. 4^ 27 novembre 1996, Maestrini).

Si aggiunga che le norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, avendo lo scopo di impedire l’insorgere di pericoli, anche se del tutto eventuali e remoti, in qualsiasi fase del lavoro, sono dirette a tutelare il lavoratore anche contro gli incidenti derivanti da un suo comportamento colposo e dei quali, conseguentemente, l’imprenditore è chiamato a rispondere per il semplice fatto del mancato apprestamento delle idonee misure protettive, anche in presenza di condotta deviante del lavoratore (v. Cass. 3^ 20 ottobre 1982, Vedovato, RV 158239-41; Cass. 4^ 3 ottobre 1990, Mandala, secondo cui il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di apportare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure il dipendente ne faccia effettivamente uso; Cass. 4^ 23 giugno 2005, Minotti; Cass. 4^ 29 settembre 2005, Riccio).

7.3.   Segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente D.S. al pagamento delle spese del procedimento e, non emergendo ragioni di esonero, al pagamento a favore della Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di somma che si stima equo fissare in Euro 1000,00 (mille/00).

Il ricorrente va, inoltre, condannato alla rifusione delle spese in favore delle costituite parti civili C.G., N. A., N.S.R. e N.M.G., S.D. e B.A. che si liquidano in complessivi Euro 4.000,00, oltre a spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

8.  Il ricorso dell’imputato L. merita accoglimento.

I primi tre motivi sono fondati nei limiti di seguito precisati.

Resta assorbito l’ultimo motivo del ricorso, fermo restando che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti sono censurabili in cassazione soltanto nell’ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico, essendo sufficiente a giustificare la soluzione della equivalenza aver ritenuto, come nel caso in esame, detta soluzione la più idonea a rimarcare il grado della negligenza degli imputati e la consistente entità delle conseguenze procurate.

8.1.     Va, anzi tutto, chiarito che la sentenza impugnata non “travisa i fatti”, come sostenuto dal ricorrente nel primo motivo del ricorso, nell’affermare che i lavori erano stati commissionati alla SNIE e che l’imputato aveva consegnato le chiavi dell’appartamento del CO. al D.G. proprio perchè si desse inizio all’attività.

Si tratta, invero, come si è accennato, di circostanze la cui veridicità è stata adeguatamente giustificata dai giudici di merito.

Detto questo, deve, peraltro, osservarsi che la sentenza impugnata non contiene, con riguardo all’affermazione di responsabilità dell’imputato L., le informazioni fattuali rilevanti ai fini del decidere. Resta in tal modo preclusa ogni possibilità di effettivo controllo da parte di questa Corte.

La sentenza si limita, invero, ad ancorare l’affermazione di responsabilità dell’imputato alla “astratta” (e non meglio specificata) posizione di “assistente tecnico” dal medesimo rivestita in ambito societario, “provata” dall’ingerenza che questi avrebbe esercitato nell’organizzazione ed esecuzione dei lavori, materializzatasi in sostanza nella traditio delle chiavi dell’unità immobiliare, asseritamente ritenuta espressiva di un ordine di inizio lavori impartito al D.G..

Orbene, premesso che la consegna materiale delle chiavi non può di per sè dimostrare nè la contestata ingerenza nell’organizzazione o nell’esecuzione dei lavori, nè che l’imputato ricoprisse, ai fini che interessano in questa sede, una funzione dirigenziale, ciò che manca nella sentenza impugnata è appunto l’accertamento in ordine all’effettivo svolgimento da parte dell’imputato di dette funzioni (tenuto conto, tra l’altro, che egli risultava “sottoposto” a A.D., che la Corte di appello aveva assolto, per non aver commesso il fatto, affermando che non risultava che si fosse “in qualche modo ingerito nell’organizzazione del cantiere o dei lavori”).

Accertamento da compiersi sulla base della considerazione che, secondo la comune interpretazione, per dirigenti si intendono quei dipendenti che hanno il compito di impartire ordini ed esercitare la necessaria vigilanza, in conformità alle scelte di politica d’impresa adottate dagli organi di vertice che formano la volontà dell’ente (essi rappresentano, dunque, l’alter ego del datore di lavoro, nell’ambito delle competenze loro attribuite e nei limiti dei poteri decisionali e di spesa loro conferiti).

La sentenza è, dunque, carente di una valutazione indispensabile per affermare l’assunzione della posizione di garanzia sulla quale si fonda la responsabilità penale.

Si è al cospetto, pertanto, di un’affermazione di responsabilità del tutto sganciata da qualsivoglia analisi sulla natura colposa della condotta dall’imputato in concreto tenuta (se si escludono “neutri” riferimenti al fatto che l’imputato avesse rassicurato il CO. che l’impresa si sarebbe fatta carico dei lavori di impermeabilizzazione ed avesse effettuato ricerche per reperire un cemento osmotico da sostituire al bitume) e sulla relazione esistente tra la stessa e l’evento verificatosi, valutazioni oltremodo necessarie nel caso in esame, in cui è provato che i lavoratori consideravano il D.S. (direttore dei lavori) come loro datore di lavoro e, per il concreto svolgimento dell’attività, ricevevano istruzioni dal preposto D.G..

8.2.     La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata nei confronti dell’imputato L. con rinvio alla Corte di appello di Salerno.

P.Q.M.

annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di D. G.G. per essere il reato estinto per morte. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di L.F. e rinvia alla Corte di appello di Salerno. Dichiara inammissibile il ricorso di D.S.A. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 1000,00 (mille/00). Condanna, altresì, il D.S. alla rifusione delle spese in favore delle parti civili costituite che liquida in complessivi Euro 4.000,00, oltre a spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Roma, 8.4.2008. Deposito 5.6.2008