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Cassazione penale sez. IV 12 maggio 2011 n. 35204

Cassazione penale sez. IV 12 maggio 2011 n. 35204

 La sentenza si segnala in particolare per i seguenti enunciati

 (OMISSIS) La declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione comporta invece la necessità di esaminare le doglianze del ricorrente ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili (art. 578 cod. proc. pen.).

 (OMISSIS) poichè la normativa antinfortunistica risulta finalizzata a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da una sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro può esser esclusa solo in presenza di "un comportamento del lavoratore stesso che presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile od inopinabile" (cfr. ex multis: Sez. 4 n. 38877 del 29 settembre 2005 - dep. 21 ottobre 2005 - imp. P.C. in proc. Fani; Sez. 4 n. 21587 del 23 marzo 2007 - dep. 1 giugno 2007 - imp. Pelosi). Solamente quindi "un comportamento anomalo del lavoratore"; "estraneo al processo produttivo od alle mansioni attribuite"; "ontologicamente avulso da ogni ipotizzarle intervento e prevedibile scelta del lavoratore" (Sez. 4 n. 38850 del 23 giugno 2005 - dep. 21 ottobre 2005 - imp. Minotti) può rivestire il ruolo di causa sopravvenuta, da sola sufficiente a cagionare l'evento, interrompendo il nesso di causa sì da condurre ad escludere la responsabilità del datore di lavoro.

 (OMISSIS) Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Ritiene il Collegio che preliminarmente, attese le conclusioni rassegnate dal Procuratore Generale e dalla difesa dell'imputato - avuto riguardo al tempus commissi delicti ((OMISSIS)), al titolo del reato (omicidio colposo aggravato dalla violazione della disciplina antinfortunistica) ed alla pena edittale per lo stesso prevista, essendo state concesse dal Tribunale all'imputato le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sull'aggravante contestata (tantochè la Corte d'appello aveva poi ulteriormente ridotto la pena base di UN anno di reclusione a quella di mesi OTTO, applicando, nella massima estensione, la riduzione di 1/3) - occorre verificare se, alla data della odierna udienza,sia interamente decorso il termine massimo di prescrizione (sette anni e mezzo) cui bisogna por mente in applicazione della normativa precedente alle modifiche introdotte con la L. n. 251 del 2005 di cui all'art. 157 cod. pen., comma 1 n. 4 e comma 2 da considerarsi più favorevole all'imputato ex art. 2 cod. pen., comma 4.

Ciò posto, va rilevata l'intervenuta prescrizione; detta causa estintiva del reato deve invero ritenersi verificata pur tenendo conto del principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte - con sentenza n. 1021/2001 (imp. Cremonese) - in tema di sospensione del decorso del termine di prescrizione in conseguenza di impedimento dell'imputato o del suo difensore; ed invero dagli atti si rileva che nel corso del giudizio di primo grado vi fu un primo rinvio dal 25 giugno al 31 ottobre 2003 (mesi 4 e giorni 6) nonchè un secondo dal 31 marzo al 25 giugno 2004 (mesi 2 e giorni 25): entrambi per l'adesione del difensore all'astensione dalle udienze proclamata dall'associazione di categoria ed infine un terzo rinvio dal 1 al 15 ottobre 2004 (giorni 15) per legittimo impedimento dell'imputato, per motivi di salute; di talchè, il termine massimo prescrizionale deve comunque ritenersi già definitivamente maturato in epoca precedente all'odierna udienza, pur sommando i periodi di sospensione sopra indicati. Deve poi convenirsi con il ricorrente che, nonostante le rilevate sospensioni del suddetto termine, la prescrizione si è compiuta in epoca anteriore alla sentenza di secondo grado, pronunziata in data 11 marzo 2010.

Tanto premesso ed avuto riguardo ai motivi dedotti dal ricorrente in relazione alle argomentazioni svolte dalla Corte d'Appello di Reggio Calabria nell'impugnata sentenza, deve riconoscersi che il ricorso non presenta profili di inammissibilità per la manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perchè basato su censure non deducibili in sede di legittimità, essendo quindi pacificamente rilevabile l'intervenuta prescrizione (posto che si tratterebbe di causa originaria di inammissibilità).

Non sussistono peraltro le condizioni di legge per la sussumibilità del caso nella previsione dell'art. 129 cod. proc. pen., comma 2 anche per quanto di seguito si dirà nell'esaminare la fattispecie ai fini civilistici.

Invero, sotto un profilo d'ordine generale e sistematico, in presenza di una causa estintiva del reato, è precluso alla Corte di Cassazione un riesame dei fatti finalizzato ad un eventuale annullamento della decisione per vizi attinenti alla sua motivazione (sia con riferimento alle valutazioni del compendio probatorio, sia con riferimento al vaglio delle altre deduzioni). Il sindacato di legittimità ai fini dell'eventuale applicazione dell'art. 129 cod. proc. pen., art. 4, comma 2, deve essere circoscritto all'accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell'insussistenza del fatto o dell'estraneità ad esso dell'imputato risulti ictu oculi evidente, sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l'operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata. Qualora, dunque, il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall'art. 129 cod. proc. pen., l'esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all'imputato, prevale l'esigenza della definizione immediata del processo. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, qualora già risulti una causa di estinzione del reato, addirittura la sussistenza di una nullità (pur se di ordine generale ed a fortiori se relativa) non è rilevabile nel giudizio di cassazione, "in quanto l'inevitabile rinvio al giudice di merito è incompatibile con il principio dell'immediata applicabilità della causa estintiva" (in tal senso, ex plurimis: Sez. Un. n. 1021/2001 Sez. Un. n. 35490/2009).

L'impugnata sentenza deve essere pertanto annullata senza rinvio, ai fini penali, per esserci reato estinto per maturata prescrizione.

Precluso risulta pertanto, nella concreta fattispecie - giova subito evidenziarlo - l'esame dell'eccepita nullità della sentenza impugnata in ragione della ritenuta violazione del disposto dell'art. 521 e art. 522 cod. proc. pen. che pacificamente configurano una nullità di ordine relativo.

La declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione comporta invece la necessità di esaminare le doglianze del ricorrente ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili (art. 578 cod. proc. pen.).

A fini civili il ricorso deve essere rigettato, per l'infondatezza delle censure addotte a suo sostegno.

Giova ancora preliminarmente premettere in linea generale quanto al vizio di motivazione, deducibile in sede di legittimità che esso deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o - a seguito della modifica apportata all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 - da "altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame". Il che comporta - quanto al vizio di manifesta illogicità -, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l'iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e che, per altro verso, questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un'altra interpretazione o di un altro iter, quand'anche in tesi egualmente corretti sul piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente (come peraltro verificatosi nella fattispecie in esame) gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si presterebbero ad una diversa lettura o interpretazione, ancorchè, in tesi, munite di eguale crisma di logicità (cfr. Cass., Sez. Un., 27.9.1995, n. 30). Quanto, al primo profilo di doglianza, col quale si censura, la logicità e congruenza del percorso motivazionale esplicitato dalla gravata sentenza e si assume l'erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche che avrebbe indotto la Corte distrettuale ad attribuire al L. la qualifica di datore di lavoro di fatto della vittima, appare opportuno innanzitutto richiamare, ad evitare inutili ripetizioni, quanto succintamente esposto in narrativa,circa gli assunti motivazionali della gravata sentenza. Va poi altresì sottolineato che, con argomentazioni ineccepibili e coerentemente basate sull'inequivoco enunciato dei due provvedimenti amministrativi in atti (Delib. della Giunta municipale del Comune di Motta S. Giovanni in data 29 ottobre 1998 e del Sindaco in data 9 marzo 1999) la Corte distrettuale ha individuato nell'imputato la qualifica di datore di lavoro responsabile del servizio di nettezza urbana, atteso anche il disposto affidamento allo stesso, di autonomia gestionale; ciò in conformità al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 2, come sostituito dal D.L. n. 242 del 1996. L'esecutività e definitività di detti provvedimenti (ed in particolare della deliberazione del Sindaco) anche in riferimento all'assegnazione della relativa autonomia gestionale, nell'ambito degli stanziamenti di bilancio "in relazione alle incombenze di cui alle norme sulla sicurezza del lavoro" priva in radice di ogni fondatezza le obiezioni del ricorrente in ordine al difetto di attribuzione di un effettivo potere di spesa fino all'adozione del Piano esecutivo di gestione (P.E.G.) che comunque non avrebbe per nulla potuto condizionare l'adempimento degli obblighi antinfortunistici, giusta le omissioni ascrittegli nel capo di imputazione, per non aver vigilato sull'uso delle cinture e dei caschi di sicurezza e per aver destinato alle mansioni di netturbino un soggetto fisicamente non idoneo che peraltro,a richiesta della stessa Amministrazione comunale, aveva dovuto esibire, ai fini dell'assunzione, ulteriori e specifiche attestazioni di idoneità alle stesse mansioni, rilasciate dal dr. V.A., specialista tra l'altro, in medicina sportiva. La Corte distrettuale ha quindi fatto corretta applicazione della specifica normativa, puntualmente recependo l'orientamento - consolidato e prevalente - della giurisprudenza di legittimità in tema di individuazione del dipendente pubblico titolare della qualifica di datore di lavoro, nell'ambito dell'organigramma degli enti pubblici territoriali, cui incombe l'osservanza dei precetti antinfortunistici (cfr. ex multis: Sez. 3 n. 19634/2003; Sez. 3 n. 47249/2005; Sez. 4 n. 34804/2010) restando in linea di principio, in tali casi, il sindaco invece esente da responsabilità (cfr. Sez. 3 n. 2297/1999). Nè rileva in contrario, ad onta della tesi sostenuta dal ricorrente, il fatto che, come statuito dalla Sez. 1 civile (con la sentenza n. 3452/2010) ed anche dalle Sezioni Unite civili di questa Corte (cfr. S.U. n. 22276/2004; S.U. n. 3/2007) chiamate a dirimere una controversia circa la spettanza degli emolumenti a soggetti impiegati nei c.d. lavori socialmente utili e circa la ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo abbiano escluso la sussistenza, tra l'ente pubblico ed i singoli lavoratori, di un rapporto di lavoro subordinato, ravvisando unicamente un rapporto giuridico previdenziale, già evidenziato dalla dottrina giuslavoristica, fondato sul disposto dell'art. 38 Cost., nel cui ambito il lavoratore, che svolge un'attività volta alla realizzazione di un interesse di carattere generale, ha diritto ad emolumenti privi di natura retributiva, ma di natura previdenziale. Non pare invero possa dubitarsi che, sulla base dei principi di ordine generale in materia antinfortunistica, dalla circostanza - indiscussa - della prestazione di lavoro resa dalla vittima in favore dell'ente pubblico territoriale (nel caso di specie: Comune di (OMISSIS)) dovesse conseguire l'obbligo, a carico del datore di lavoro (individuato, trattandosi di amministrazione pubblica, a norma del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 2 come sostituito dal D.Lgs. n. 242 del 1996), dell'osservanza della specifica normativa di prevenzione degli infortuni e di tutela della salute del prestatore di lavoro, introdotta dallo stesso D.Lgs. n. 626 del 1994.

Quanto alla terza ed alla quarta censura (da trattarsi congiuntamente concernendo entrambe le specifiche condotte di colpose addebitata al L.) va evidenziato che la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione delle richiamate disposizioni normative dandone conto con argomentazioni assolutamente congrue e condivisibili. Ma pertanto la Corte distrettuale in particolare sottolineato che l'imputato:

1. per grave imprudenza ed in violazione del disposto del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 5, lett. c) aveva adibito il C. alle mansioni di netturbino - che comportavano lo stazionamento del lavoratore, in equilibrio ed in piedi, sulla pedana posteriore dell'autocompattatore in movimento, benchè affetto da postumi di poliomielite tali da comprometterne la stazione eretta e le capacità prensili dell'arto superiore destro (tanto da esser conosciuto con l'epiteto dialettale di: "ciunco" ovverosia di zoppo) sì da esigere, ai fini del completamento della procedura di assunzione, l'esibizione di un'ulteriore certificazione medica di idoneità, invero di contenuto generico e comunque non rilasciata da un medico competente ex Lege n. 626 del 1994, ma da medico, come già rilevato,specialista in medicina sportiva;

2. versando in generica negligenza ed incorrendo nella violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 5, lett. f), aveva omesso di istruire i lavoratori e di vigilare sull'impiego dei mezzi di sicurezza individuali ed in particolare delle cinture di sicurezza (D.P.R. n. 547 del 1955, art. 4), di cui l'autocompattatore era pacificamente dotato (sulle quali, come riscontrato de visu da Ufficiale di P.G., si era formato, dalla parte esterna, uno strato di polvere, a dimostrazione del loro, "ordinario" non utilizzo; ciò a prescindere logicamente dall'esistenza di nodi più o meno fortemente serrati) come comprovato dalla deposizione del teste Ve.(collega di lavoro della vittima che si trovava anch'egli, al momento dell'incidente, in servizio sullo stesso auto compattatore) che aveva riferito di mere raccomandazioni rivolte loro dal L. sull'uso delle cinture di sicurezza, senza far luogo a controlli specifici od "a sorpresa" sul luogo di lavoro; che aveva ammesso il saltuario uso delle cinture stesse mentre operava sulla pedana dell'autocompattatore e che, nel caso di specie, non si era curato, prima di dare all'autista il segnale di partenza convenuto, di verificare che la vittima fosse perfettamente imbracata;

3. per non aver altresì vigilato, (così omettendo colposamente gli specifici e già richiamati obblighi a tutela della incolumità dei lavoratori) sull'impiego dei baschetti presenti sull'autocompattatore e preordinati alla salvaguardia di eventuali lesioni al capo, mai indossati durante il lavoro svolto a bordo dell'autocompattatore, come era emerso dalle dichiarazioni del teste Ve., non smentite da alcuna diversa emergenza processuale, ben potendo aver rivestito efficacia concausale rispetto all'evento, l'omesso impiego del casco protettivo, attesochè il decesso del C. fu dovuto a trauma cranico.

Ha inoltre la Corte d'appello escluso, attenendosi anche sul punto alla consolidata giurisprudenza di legittimità, che l'omesso impiego delle cinture di sicurezza (il cui uso, attesa la ricostruzione dell'infortunio nei termini sopraricordati, avrebbe pacificamente impedito la caduta del C. e quindi l'evento letale conseguitone) abbia costituito un comportamento anomalo ed imprevedibile tale da interrompere il nesso di causa con le evidenziate omissioni ascrivibili a colpa dell'imputato.

Infatti, poichè la normativa antinfortunistica risulta finalizzata a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da una sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro può esser esclusa solo in presenza di "un comportamento del lavoratore stesso che presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile od inopinabile" (cfr. ex multis: Sez. 4 n. 38877 del 29 settembre 2005 - dep. 21 ottobre 2005 - imp. P.C. in proc. Fani; Sez. 4 n. 21587 del 23 marzo 2007 - dep. 1 giugno 2007 - imp. Pelosi). Solamente quindi "un comportamento anomalo del lavoratore"; "estraneo al processo produttivo od alle mansioni attribuite"; "ontologicamente avulso da ogni ipotizzarle intervento e prevedibile scelta del lavoratore" (Sez. 4 n. 38850 del 23 giugno 2005 - dep. 21 ottobre 2005 - imp. Minotti) può rivestire il ruolo di causa sopravvenuta, da sola sufficiente a cagionare l'evento, interrompendo il nesso di causa sì da condurre ad escludere la responsabilità del datore di lavoro.

Ora, nel caso di specie, la non occasionalità della condotta, pur negligente ed imprudente, posta in atto dalla vittima nell'ambito dell'espletamento delle mansioni a lei demandate in relazione alle direttive comunque ricevute ed alla materiale dotazione sull'autocompattatore dei mezzi di sicurezza individuali vale ad escludere che si versi in ipotesi di condotta abnorme, imprevedibile, eccezionale ed avulsa dalle operazioni cui il lavoratore era in concreto addetto. In conclusione deve rilevarsi che, ove l'imputato non fosse venuto meno ai propri doveri di vigilanza e di controllo riconnessi alla posizione di garanzia rivestita, l'evento sarebbe stato evitato, essendo peraltro del tutto prevedibile la violazione comportamentale commessa dal lavoratore.

Al rigetto del ricorso agli effetti civili consegue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio, in favore delle costituite parti civili, come in dispositivo liquidate.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perchè estinto il reato per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna il ricorrente alla rifusione in favore delle costituite parti civili, delle spese di questo giudizio che, unitariamente e complessivamente, liquida in Euro 1.800,00, oltre spese generali, IVA e CPA, come per legge.

Roma, il 12 maggio 2011. Depositato 28 settembre 2011