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Cassazione penale sez. IV, 16 dicembre 2009, 3360

Cassazione penale  sez. IV,  16 dicembre 2009, 3360

La sentenza si segnala in particolare per i seguenti enunciati: 

…“ in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, nel caso di prestazione lavorativa in esecuzione di un contratto d’appalto, il committente è costituito come corresponsabile con l’appaltatore per le violazioni delle misure prevenzionali e protettive sulla base degli obblighi sullo stesso incombenti D.Lgs. n. 626 del 1994, ex art. 7 ” …

… “la delega rilasciata a soggetto privo di una particolare competenza in materia antinfortunistica e non accompagnata dalla dotazione del medesimo di mezzi finanziari idonei a consentirgli di fare fronte in piena autonomia alle esigenze di prevenzione degli infortuni, non è sufficiente a sollevare il datore di lavoro dai propri obblighi in materia e a liberarlo dalla responsabilità per l’infortunio conseguito alla mancata predisposizione dei necessari presidi di sicurezza” …

(OMISSIS)

FATTO

M.G., M.E., B.E., V.M., Vi.Ma. e C.R. venivano tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di Milano per rispondere del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche per avere, in cooperazione tra loro, cagionato per colpa la morte di Z.F., il quale, nel corso di lavori di gessatura ed intonacatura effettuati presso il cantiere (OMISSIS), in prossimità dell’accesso alla tromba dell’ascensore, in corrispondenza dell’ultimo piano dell’edificio in costruzione, in assenza di ogni misura di sicurezza personale e di idonee misure di protezione dal pericolo di caduta nel vuoto, aveva perso l’equilibrio, cadendo nella predetta tromba, riportando lesioni personali dalle quali era poi derivata la morte.

All’esito del giudizio, il Tribunale affermava la colpevolezza di tutti i predetti imputati e, per la parte che in questa sede rileva, condannava M.G. alla pena di anni due di reclusione con la concessione delle attenuati generiche valutate equivalenti all’aggravante contestata; gli imputati venivano altresì condannati al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili. Al M.G. il fatto era stato addebitato in relazione al ruolo dallo stesso ricoperto quale responsabile della Mutti Costruzioni s.p.a., ditta che, avendo concluso con la Sepi Costruzioni s.p.a. un contratto di appalto relativo alla costruzione di diverse palazzine nel cantiere di (OMISSIS), aveva a sua volta subappaltato l’esecuzione dei lavori di intonacatura e di gessatura all’impresa V.M. della quale la vittima era dipendente in qualità di manovale.

A seguito di gravame ritualmente proposto, la Corte d’Appello di Milano, quanto alla posizione del M.G., confermava l’affermazione di colpevolezza dello stesso riducendo nei suoi confronti ad anni uno e mesi due di reclusione la pena inflitta dal primo giudice, fermo restando il giudizio di equivalenza tra le attenuanti generiche e l’aggravante quale espresso dal primo giudice.

La Corte territoriale dava conto del proprio convincimento al riguardo, con argomentazioni che possono così sintetizzarsi: a) il M.G. era l’amministratore unico della Mutti Costruzioni, committente dei lavori di intonacatura e gessatura svolti dalla Ditta Viola, ed era quindi la figura principale della società committente ed in tale qualità aveva, ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, lett. a) e lett. b), l’obbligo di verificare l’idoneità tecnica dell’impresa appaltatrice nonchè quello di fornire all’appaltatore dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente di lavoro; b) la ditta appaltatrice non lavorava in condizioni di assoluta autonomia, posto che l’interferenza tra le due attività, quella della Mutti Costruzioni (relativa alle opere in muratura) e quella della ditta Viola (intonacatura e gessatura), era assolutamente necessaria in quanto l’intonacatura doveva interessare tutte le superfici oggetto del principale lavoro di muratura, anche nella parte relativa agli ascensori: di tal che, gravava sul committente l’obbligo di predisporre le misure di sicurezza adeguate, coordinando con l’appaltatore gli interventi prevenzionali, e, quindi, anche l’obbligo di predisporre le protezioni relative alla tromba dell’ascensore, configurandosi dunque una sua precisa responsabilità concorrente, indipendentemente dalle statuizioni contrattuali; c) l’impresa appaltatrice era stata scelta senza preventive riunioni e senza alcuna seria verifica, come ammesso dallo stesso M. il quale aveva dichiarato che tale ditta era stata scelta soltanto perchè conosciuta come seria ed operante sul mercato da alcuni anni, aggiungendo che non era stata neanche controllata la posizione dei dipendenti della stessa; d) l’obbligo di costruire l’impalcatura era innanzi tutto a carico del committente che, avendo ingerenza nel cantiere e la responsabilità delle opere di muratura, avrebbe dovuto preoccuparsi, prima di ogni altro, delle misure idonee a prevenire infortuni; e) non vi erano altri soggetti muniti di delega per il servizio prevenzione e protezione, con piena autonomia di gestione e spesa, posto che lo stesso M. aveva riferito di aver scelto M.E. e B.E. come suoi collaboratori, l’uno per il servizio di prevenzione e l’altro quale direttore di cantiere, senza ripartizione di competenze e senza attribuzione di autonomia di spesa; il M.G. aveva conseguentemente mantenuto la responsabilità che gli derivava dall’aver concluso il contratto e dall’essere tenuto all’attuazione della prevenzione: in mancanza di altri soggetti dotati di poteri decisionali e di spesa, il M. avrebbe dovuto dunque garantire la sua costante presenza in cantiere; f) non erano ravvisabili nella condotta del lavoratore rimasto vittima dell’infortunio connotazioni di abnormità, posto che il suo comportamento non si era concretizzato in un atto assolutamente incompatibile con la natura e con gli scopi dell’attività svolta ovvero in un atto assolutamente estraneo al processo produttivo; g) non poteva accedersi alla richiesta difensiva di un giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante, che poteva invece formularsi a favore di quei coimputati che avevano raggiunto un accordo transattivo con le parti civili (con conseguente declaratoria di prescrizione del reato nei confronti dei medesimi): ed invero il M.G. non era intervenuto in tale accordo. Ricorre per cassazione il M. G., tramite il difensore, deducendo censure che possono così riassumersi: 1) anche nei confronti di M.G. avrebbe dovuto essere formulato un giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche (con conseguente declaratoria di prescrizione del reato), dovendo l’accordo transattivo raggiunto con le parti civili produrre i suoi effetti positivi anche a favore del M. stesso: al tempo del procedimento di appello era in atto solo una questione civilistica di ripartizione delle somme dovute alle parti civili, inizialmente resa ancor più complessa dalla presenza di un Istituto Assicuratore che aveva aderito al risarcimento soltanto con una modesta somma, e si era reso necessario quindi procedere a complicati calcoli per determinare le quote di competenza di ciascun imputato;

b) la ditta Viola non era stata scelta casualmente e senza preventive riunioni: si trattava di impresa che lavorava in altri 11 cantieri e la sera prima dell’infortunio, M.E. e B.E. avevano effettuato un sopralluogo ed una verifica in cantiere per fissare le modalità dell’incidente; c) la Mutti Costruzioni era una impresa di grandi dimensioni che gestiva molti cantieri, 11 dei quali con subappalto per il lavoro di gessatura alla ditta Viola, e non poteva quindi pretendersi che il M.G. potesse essere contemporaneamente presente in tutti i cantieri: come desumibile dalla stessa sentenza impugnata esistevano sia il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nella persona di M. E., sia il responsabile di cantiere, nella persona di B. E.: sostiene il ricorrente che a costoro sarebbe stata conferita apposita delega con autonomia di gestione e di spesa.

DIRITTO

Il ricorso deve essere rigettato per l’infondatezza delle censure dedotte. Quanto al primo motivo, dagli atti risulta in modo inequivocabile che il M.G. non partecipò in concreto all’accordo transattivo con le parti civili; nè rilevano le giustificazioni addotte dal ricorrente circa l’asserita difficoltà di ripartizione delle somme dovute alle parti civili. Giova ricordare in proposito che le Sezioni Unite di questa Corte - pronunciandosi con specifico riferimento alla questione dell’estensione ai concorrenti nel reato dell’attenuante del risarcimento del danno effettuato da uno dei correi (il principio espresso risulta significativo anche in relazione al caso in esame) - hanno affermato che “in tema di concorso di persone nel reato, ove un solo concorrente abbia provveduto all’integrale risarcimento del danno, la relativa circostanza attenuante non si estende ai compartecipi, a meno che essi non manifestino una concreta e tempestiva volontà di riparazione del danno”. Nella fattispecie il ricorrente non ha allegato alcun elemento concreto a conferma di una sua effettiva volontà di risarcire il danno; dalla sentenza impugnata si rileva che la provvisionale è stata versata dai coimputati del M. G., e che quest’ultimo non ha partecipato all’accordo transattivo con le parti civili. Legittimamente, dunque, la Corte distrettuale ha ribadito per il M.G. il giudizio di sola equivalenza tra le concesse attenuanti generiche e l’aggravante contestata; ne deriva che il termine massimo di prescrizione - in relazione alla pena edittale prevista in conseguenza del giudizio di equivalenza tra attenuati generiche ed aggravante - a tutt’oggi non è ancora decorso, tenuto conto che il fatto è avvenuto il (OMISSIS), sia con riferimento al previgente testo dell’art. 157 c.p. (termine massimo di prescrizione, considerando gli atti interruttivi, pari a 15 anni), sia con riferimento alle modifiche introdotte con la L. n. 251 del 2005; a tale ultimo proposito va invero considerato che: 1) in base all’art. 157 c.p., comma 6, come modificato con la L. “ex Cirielli” n. 251 del 2005, entrata in vigore l’8 dicembre 2005, il termine di prescrizione è di 12 anni per il delitto di cui all’art. 589 c.p., comma 2, (pena da 1 a 5 anni trattandosi di fatto avvenuto prima della novella del 2006), con un massimo di 15 anni, per l’aumento di un quarto, in conseguenza degli atti interruttivi;

2) mette conto sottolineare, peraltro, che, ove i termini di prescrizione previsti dalla “ex Cirielli” fossero risultati più brevi, gli stessi non sarebbero stati applicabili perchè la sentenza di primo grado è stata emessa il 25 gennaio 2000 e quindi (ampiamente) prima dell’entrata in vigore della “ex Cirielli”, (cfr., “ex plurimis”, Sez. Un., n. 47008 del 29/10/2009 Ud. - dep. 10/12/2009 - Rv. 244810). Parimenti infondate, ai limiti dell’inammissibilità, sono le ulteriori censure riguardanti la ritenuta colpevolezza dell’imputato.

Va preliminarmente evidenziato che il M. con il ricorso ha sostanzialmente riproposto le tesi difensive già sostenute in sede di merito e disattese dal Tribunale prima e dalla Corte d’appello poi. Al riguardo giova ricordare che nella giurisprudenza di questa Corte è stato enunciato, e più volte ribadito, il condivisibile principio di diritto secondo cui “è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità” (in termini, Sez. 4^, n. 5191 del 29/03/2000 Ud. - dep. 03/05/2000 - Rv. 216473; conf: Sez. 5^, n. 11933 del 27/01/2005, dep. 25/03/2005, Rv. 231708).

E va altresì sottolineato che la Corte distrettuale ha affrontato e risolto le questioni sollevate dall’imputato seguendo un percorso motivazionale caratterizzato da completezza argomentativa e dalla puntualità dei riferimenti normativi rilevanti ai fini dell’esame della posizione dell’imputato stesso.

Nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta dunque formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali - quali sopra riportati (nella parte relativa allo “svolgimento del processo”) e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni - forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti l’infortunio oggetto del processo: la Corte distrettuale, dopo aver analizzato tutti gli aspetti della vicenda (dinamica dell’infortunio e posizione di garanzia del M. G.) ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente la penale responsabilità dell’imputato.

Per completezza argomentativa si impongono solo talune ulteriori precisazioni in relazione alle tesi difensive prospettate dal ricorrente, la cui infondatezza appare evidente sia dal punto di vista fattuale che dal punto di vista normativo. I giudici di merito hanno affermato, in base ad accertamento di fatto insindacabile in questa sede, che vi fu una concreta ingerenza del committente ( M. G.) nell’attività svolta dalla società appaltatrice V. M. alle cui dipendenze lavorava l’operaio poi rimasto vittima dell’infortunio che ne occupa. A tale ultimo riguardo giova ricordare il condivisibile e consolidato indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui “in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, nel caso di prestazione lavorativa in esecuzione di un contratto d’appalto, il committente è costituito come corresponsabile con l’appaltatore per le violazioni delle misure prevenzionali e protettive sulla base degli obblighi sullo stesso incombenti D.Lgs. n. 626 del 1994, ex art. 7” (in termini, “ex plurimis”: Sez. 3^, n. 1825 del 04/11/2008 Ud. - dep. 19/01/2009 - Rv. 242345). Parimenti destituita di fondamento è la deduzione difensiva circa l’asserita mancanza di responsabilità per il ricorrente per aver egli, in quanto amministratore unico di una impresa di grandi dimensioni, rilasciato delega a M.E. e B.E., nominando il primo come responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ed il secondo come responsabile di cantiere. La Corte territoriale ha precisato che non vi era stata alcuna delega, ed ha evocato al riguardo le stesse dichiarazioni del M.G. avendo questi riferito di aver scelto il M. E. e il B.E. come suoi collaboratori, l’uno per il servizio di prevenzione e l’altro quale direttore di cantiere: non vi era stata alcuna ripartizione di competenze e non era stata prevista per detti collaboratori alcuna autonomia di spesa. Orbene, a dimostrazione dell’infondatezza della tesi difensiva, giova ricordare quelli che sono i principi enunciati in proposito nella giurisprudenza di legittimità: “in materia di infortuni sul lavoro, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere delegati, con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al datore di lavoro. Tuttavia, il relativo atto di delega deve essere espresso, inequivoco e certo e deve investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, che abbia accettato lo specifico incarico, fermo comunque l’obbligo per il datore di lavoro di vigilare e di controllare che il delegato usi, poi, concretamente la delega, secondo quanto la legge prescrive” (in termini, “ex plurimis”, Sez. 4^, n. 38425 del 19/06/2006 Ud. - dep. 22/11/2006 - Rv. 235184); “la delega rilasciata a soggetto privo di una particolare competenza in materia antinfortunistica e non accompagnata dalla dotazione del medesimo di mezzi finanziari idonei a consentirgli di fare fronte in piena autonomia alle esigenze di prevenzione degli infortuni, non è sufficiente a sollevare il datore di lavoro dai propri obblighi in materia e a liberarlo dalla responsabilità per l’infortunio conseguito alla mancata predisposizione dei necessari presidi di sicurezza” (Sez. 4^, n. 7709 del 13/11/2007 Ud. - dep. 20/02/2008 - Rv. 238526).

Il ricorrente ha affermato nel ricorso che la delega in questione “risulta per tabulas, ed è un documento allegato agli atti del processo sin dal primo grado ed in alcuni punti la Corte d’Appello ne da conferma...” (cfr. pag. 6 del ricorso), aggiungendo ancora che “è certo, per tabulas, che le figure del responsabile del servizio di prevenzione e del direttore del cantiere fossero state codificate all’interno del cantiere stesso con piena autonomia gestionale ed autonomia di spesa da parte dei delegati” (cfr. pag. 7 del ricorso).

Orbene, se è vero che la Corte distrettuale ha parlato anche dei ruoli ricoperti dal M.E. e dal B.E., è altresì incontestabile che in sentenza non risulta indicato alcun elemento specifico, utile per la individuazione di un documento al riguardo: la Corte stessa, come sopra già ricordato, sembra aver preso contezza, dei ruoli svolti di fatto dal M.E. e dal B., dalle dichiarazioni rilasciate dallo stesso M. G., laddove (pag. 46 della sentenza) ha precisato quanto segue: a) M.G. non aveva mai detto di aver delegato M.E. e B.E.; b) questi ultimi erano collaboratori del M.G., senza ripartizione di competenze e senza alcuna autonomia di spesa. Nè è ravvisabile incompatibilità tra la condanna del M.G. ed il ritenuto coinvolgimento nella vicenda a pieno titolo anche del M.E. e del B.: ed invero, la responsabilità di questi ultimi due è stata evidentemente ancorata alle mansioni di fatto da costoro comunque esercitate ed alla situazione del cantiere agli stessi nota.

In relazione alla censura “de qua”, così come formulata dal ricorrente, giova sottolineare che la riforma della L. n. 46 del 2006 ha introdotto un onere rafforzato di specificità per il ricorrente in punto di denuncia del vizio di motivazione. Infatti, il nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) - nel far riferimento ad atti del processo che devono essere dal ricorrente “specificamente indicati” - detta una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell’art. 581 c.p.p., lett. c) (secondo cui i motivi di impugnazione devono contenere “l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”). Con la conseguenza che sussiste a carico del ricorrente -accanto all’onere di formulare motivi di impugnazione specifici e conformi alla previsione dell’art. 581 c.p.p. - anche un peculiare onere di inequivoca “individuazione” e di specifica “rappresentazione” degli atti processuali ritenuti rilevanti in relazione alla doglianza dedotta, onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi, e cioè integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell’atto nel fascicolo del giudice et similia (cfr. Sez. 1^, n. 20370 del 20/04/2006, Rv. 233778, imp. Simonetti ed altri). In forza di tale principio (cosiddetta autosufficienza del ricorso) si impone, inoltre, che in ricorso vengano puntualmente ed adeguatamente illustrate le risultanze processuali considerate rilevanti e che dalla stessa esposizione del ricorso emerga effettivamente una manifesta illogicità del provvedimento, pena altrimenti l’impossibilità, per la Corte di Cassazione, di procedere all’esame diretto degli atti (in tal senso, “ex plurimis”, Sez. 1^ n. 16223 del 02/05/2006, Rv. 233781 imp. Scognamiglio): manifesta illogicità motivazionale assolutamente insussistente nel caso in esame, se si tiene conto delle argomentate risposte della decisione impugnata a tutti i temi toccati dalla parte civile. Ma v’è di più, posto che, sempre con riferimento alla portata delle innovazioni della L. n. 46 del 2006 relativamente allo specifico caso di ricorso per cassazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), non è sufficiente: a) che gli atti del processo evocati con il ricorso siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e/o valutazioni del giudicante, o con la sua ricostruzione complessiva (e finale) dei fatti e delle responsabilità; b) nè che tali atti possano essere astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Occorre invece che gli “atti del processo”, presi in considerazione per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione, siano “decisivi”, ossia autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Lo stesso dicasi per quel che riguarda la verifica che sarebbe stata effettuata nel cantiere, la sera prima dell’infortunio, dal M.E. e dal B.: trattasi di circostanza solo assertivamente riferita nel ricorso, che, peraltro, appare priva di qualsiasi rilievo avendo la Corte di merito, come ampiamente già sopra ricordato, dato atto che il M.G. si avvaleva comunque di fatto della collaborazione dei due.

In definitiva: la nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, nella parte in cui consente la deduzione, in sede di legittimità, del vizio di motivazione sulla base, oltre che del “testo del provvedimento impugnato”, anche di “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, per cui gli atti in questione non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati (non solo singolarmente, ma in relazione all’intero contesto probatorio), avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo comunque esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione (cui deve limitarsi la corte di cassazione) possa essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Sez. 2^, n. 19584 del 05/05/2006, Rv. 233775, imp. Capri ed altri).

Tenendo conto di tutti i principi testè ricordati, deve dunque concludersi che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base della censura appena esaminata non valgono a scalfire la congruenza logica del complesso motivazionale impugnato. Per quel che riguarda infine la ritenuta insussistenza di connotazioni di abnormità nella condotta del lavoratore rimasto vittima dell’infortunio, la Corte territoriale ha ampiamente risposto alle deduzioni difensive sul punto, con le convincenti e logiche argomentazioni già sopra ricordate nella parte narrativa: comunque alcuna censura è stata dedotta in proposito con il ricorso.

Al rigetto del ricorso segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Roma, il 16.12.2009. Deposito il 26.1. 2010