FLEPAR Inail formula proposte operative per una PA a servizio di cittadini ed imprese, a sostegno del mondo impresa-lavoro e delle PMI. Sviluppa le competenze interdisciplinari dei professionisti pubblici per riforme: PA, sicurezza sul lavoro, giustizia, legalità, prevenzione della corruzione.

Ad attività sindacale FLEPAR affianca una intensa attività propositiva e di studio, fornendo contributi in materie strettamente correlate ai compiti istituzionali Inail: si pone come un laboratorio di idee e progetti caratterizzato da un approccio concreto, frutto dell'esperienza diretta sul campo.

Associazione apolitica e senza scopo di lucro, con carattere sindacale, col fine di tutelare interessi giuridici, economici, e funzione, professionalità, dignità e autonomia dei Professionisti Inail.
Interlocutore sindacale dell'Amministrazione, siede con piena legittimazione a tutti i tavoli sindacali.

Nel corso della storia di FLEPAR Inail abbiamo compreso che non sempre è sufficiente avere una buona idea, svilupparla e proporla nelle giuste sedi ma è altrettanto importante la modalità con la quale questa iniziativa viene veicolata e comunicata. Ci siamo resi conto che una comunicazione adeguata e moderna costituisce un valore aggiunto.

Cassazione penale sez. IV 24 giugno 2011, n. 28796

Cassazione penale sez. IV 24 giugno 2011, n. 28796

 La sentenza si segnala in particolare per i seguenti enunciati:

 (OMISSIS) Per quanto riguarda poi la richiesta di un'indagine epidemiologica - la cui reiezione forma oggetto del terzo motivo di ricorso - è noto che questo tipo di indagine è idonea a fornire notizie utilizzabili nel processo solo per quanto attiene all'esistenza della causalità generale e non la causalità del singolo caso.

Ma la prova richiesta è comunque priva di alcuna decisività perchè, se anche fornisse un esito conforme alle aspettative dei richiedenti - nel senso che le malattie professionali verificatesi negli stabilimenti (OMISSIS) avrebbero un'incidenza percentuale in linea con le popolazioni non esposte - ciò non varrebbe ad escludere il rapporto di causalità ove fosse dimostrata l'astratta idoneità della sostanza a provocare quella malattia (causalità generale) e l'evidenza disponibile consentisse di ricondurre la malattia concretamente verificatasi all'esposizione in assenza di ipotizzabili fattori causali alternativi. 

 Fatto OSSERVA

1) Il Tribunale di Torino, con sentenza 1 ottobre 2008, così provvedeva (oltre ad altre pronunzie che più non interessano nel presente giudizio) nel processo instaurato nei confronti di numerosi imputati e relativo a fatti di omicidio e lesioni colpose per malattie professionali conseguenti ad esposizione a sostanze nocive:

- condannava I.L. e G.L. (OMISSIS)

2) La Corte d'Appello di Torino - esaminando gli appelli proposti contro la sentenza di primo grado da I.L., G. L., B.G., M.L., O. G., P.L., T.M., F.D. e CA.PI. - con sentenza 17 giugno 2010, ha concesso a tutti gli imputati indicati l'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 6 e ha ritenuto tale attenuante e le attenuanti generiche (già concesse dal primo giudice a tutti gli imputati con criterio di equivalenza) prevalenti sulle aggravanti contestate. Ha quindi confermato le pronunce di proscioglimento per prescrizione pronunziate dal primo giudice e ha dichiarato estinti per la medesima causa i reati per i quali era stata pronunziata condanna.

La Corte di merito, nella sentenza indicata, ha ripercorso i fatti oggetto del presente processo ricordando che i medesimi si riferivano a decessi e lesioni riguardanti persone che prestavano la propria attività lavorativa presso gli stabilimenti (OMISSIS); ha poi riferito sulle caratteristiche delle singole malattie che avevano cagionato gli eventi contestati e spiegato le ragioni in base alle quali le malattie e i decessi dovevano ritenersi cagionati dalle esposizione avvenute nel corso del rapporto lavorativo.

I giudici di secondo grado hanno poi analiticamente riportato i motivi di appello proposti e ne hanno ritenuto l'infondatezza condividendo le argomentazioni del Tribunale e spiegando le ragioni di tale convincimento sia con riferimento alle ragioni di ordine generale poste a fondamento della prima decisione che nell'esame dei singoli casi.

Esaminando poi i singoli casi di morte o malattia oggetto del processo la Corte ne ha confermato la riconducibilità causale alle esposizioni cui i lavoratori erano stati sottoposti; ha precisato come le persone offese avessero iniziato tutte a lavorare presso gli stabilimenti indicati (in particolare a (OMISSIS)) fin dai primi anni sessanta e come tutti (ad eccezione di G. che operava come fuochista presso la centrale termica) avessero prestato la propria attività al miscelatore Bumbery sito nel reparto vulcanizzazioni e nel reparto mescole. In questo miscelatore si riponevano manualmente le sostanze in polvere che si disperdevano nell'aria. Solo nel 1982 si iniziarono ad adottare precauzioni per evitare lec dispersione nell'aria delle polveri nocive.

La sentenza affronta poi il tema dei singoli decessi contestati agli imputati. Per quanto riguarda G.P., deceduto per mesotelioma pleurico, rileva come il lavoratore fosse stato per molti anni esposto all'inalazione delle polveri di amianto; come solo nel 1985 gli fossero state fornite mascherine protettive; che le opere di bonifica dai materiali contenenti amianto fossero iniziati nel 1997.

Per quanto riguarda i problemi concernenti numerosi lavoratori deceduti per broncopneumopatia cronica ostruttiva o per carcinoma polmonare, la Corte ha ritenuto provato che i lavoratori B. V. (esposto all'inalazione delle polveri utilizzate per proteggere i pneumatici e dei solventi), BO.EM. (esposto per molti anni alle polveri emesse dalle sostanze nocive usate e a quelle riversate nel miscelatore), BR.GI. (addetto per molti anni al caricamento manuale del miscelatore Banbury), S. S. (esposto per molti anni alle polveri di amianto e agli oli aromatici) avessero contratto le malattie che li avevano portati alla morte nello svolgimento dell'attività lavorativa presso la (OMISSIS) e che il fumo da tabacco praticato dagli ultimi tre potesse aver avuto al massimo un ruolo concausale sul verificarsi dell'evento.

E analogamente la sentenza d'appello ha ritenuto riconducibili all'attività lavorativa svolta le lesioni subite da L., LU. e D.P..

3) Contro la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso sia il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Torino che, con atto unico, gli imputati I.L., G. L., B.G., O.G., P. L., T.M. e F.D..

Il Procuratore generale censura la sentenza di secondo grado, con il primo motivo, deducendo il vizio di violazione di legge e quello di motivazione in ordine alla concessa attenuante prevista dall'art. 62 c.p., n. 6. Si duole il ricorrente che la Corte d'Appello abbia riconosciuto l'attenuante a tutti gli imputati pur essendo provato che solo l'azienda aveva provveduto al risarcimento dei danni mentre gli imputati non avevano partecipato alle trattative nè avevano personalmente provveduto al risarcimento.

Anche ammettendo la natura oggettiva dell'attenuante, secondo il ricorrente, il suo riconoscimento non può derivare dal semplice soddisfacimento dell'obbligazione risarcitoria da parte del coobbligato solidale dovendosi richiedere, da parte dell'imputato, la prova di una concreta e tempestiva volontà di riparazione del danno;

volontà nella specie inesistente (il ricorrente ricorda anche che, in un caso, la conciliazione era intervenuta in una causa civile).

Dopo un esame del quadro normativo nel ricorso si ribadisce che nel caso in esame non può ravvisarsi l'esistenza dell'attenuante al di fuori di qualsiasi trattativa tra le parti e con la predisposizione unilaterale dell'atto di transazione e con l'esclusione di ogni negoziazione. Se interpretata nel senso della Corte di merito inoltre la norma si porrebbe in contrasto con l'art. 49 comma 3 della CEDU (e in tal senso si chiede che venga eventualmente sollevata una questione pregiudiziale interpretativa).

Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione delle norme applicate dalla sentenza di appello per dichiarare estinti i reati contestati per i quali non era intervenuta assoluzione in primo grado.

Il ricorrente premette che la normativa precedente all'entrata in vigore della L. n. 251 del 2005 era più favorevole per gli imputati e quindi deve essere applicata nel caso in esame. Ove venisse accolto il primo motivo di ricorso, con l'esclusione dell'attenuante, i reati di omicidio colposo si prescriverebbero in quindici anni (con l'equivalenza delle circostanze già riconosciuta dal primo giudice) e non sarebbero dunque prescritti.

Il ricorrente chiede poi che il ricorso venga rimesso alle sezioni unite sul tema della configurabilità come aggravante dell'omicidio colposo nel caso previsto dall'art. 589 c.p., u.c., in considerazione di un recente precedente di questa sezione che ha accolto questa tesi in difformità dall'orientamento tradizionale che riteneva trattarsi di concorso formale.

Con l'ultimo motivo si solleva infine la questione di legittimità costituzionale della normativa che consente il decorso dei termini di prescrizione anche dopo la condanna dell'imputato in primo grado ove la durata del primo giudizio si sia protratta per oltre un triennio e non sia stata determinata dall'inerzia del giudice nè da espedienti dilatori ma dalla necessità e complessità degli atti istruttori necessari anche a fini difensivi.

A sostegno dell'eccezione si invoca anche l'art. 6 della CEDU non per chiederne la diretta applicabilità nell'ordinamento italiano ma come fonte integratrice del parametro di costituzionalità previsto dall'art. 117 Cost., comma 1.

4) Con il ricorso da loro proposto gli imputati I.L., G.L., B.G., O.G., P.L., T.M. e F.D. hanno impugnato la sentenza della Corte torinese solo limitatamente alle ipotesi di omicidio colposo di cui ai capi A, B e C. Restano quindi escluse dal giudizio di impugnazione le pronunzie relative alla dichiarazione di estinzione dei reati di lesioni colpose contestate al capo D cui si è in precedenza fatto riferimento.

I ricorrenti, con il primo motivo, deducono anzitutto la mancanza di motivazione "in relazione al rigetto delle doglianze formulate con l'atto di appello". Si afferma nel motivo di ricorso che, prima della pronunzia di secondo grado, mentre era certamente decorso il termine di prescrizione per i delitti di lesioni colpose ciò non era ancora avvenuto in relazione ai delitti di omicidio colposo perchè non era stata ancora concessa l'attenuante che aveva consentito il nuovo giudizio di comparazione delle circostanze. Era dunque obbligo della Corte esaminare integralmente i motivi di appello e non limitarsi alla verifica dell'inesistenza della prova dell'innocenza degli imputati.

Nel ricorso si richiama poi il contenuto della sentenza Tettamanti delle sezioni unite di questa Corte rilevando come questa decisione abbia precisato che, almeno in due ipotesi, il giudice dell'impugnazione non possa limitarsi a verificare se esista l'evidenza della prova dell'innocenza nel caso di estinzione del reato perchè, in questi casi, viene meno il principio di economia processuale che sta alla base del disposto dell'art. 129 c.p.p., comma 2. Trattasi, secondo i ricorrenti, di un principio generale estensibile a tutti i casi - come quello in esame - nei quali, pur in presenza di una causa estintiva del reato, manchi o sia insufficiente la prova della colpevolezza dell'imputato.

In base alle censure proposte nel motivo i ricorrenti chiedono dunque che la sentenza impugnata venga annullata con rinvio; in subordine - ove ciò non sia ritenuto possibile - che la Corte di legittimità, avvalendosi dei poteri attribuibile dall'art. 620, lett. a) o lett. l), pronunzi essa stessa la sentenza di annullamento senza rinvio riconoscendo l'esistenza di una delle cause di proscioglimento previste dall'art. 530.

Con il secondo motivo di ricorso si deducono invece il vizio di motivazione e la violazione degli artt. 40 e 41 c.p. in relazione alla ritenuta esistenza del rapporto di causalità tra la condotta dei ricorrenti e gli eventi. Si ribadisce, nel motivo di impugnazione, che la Corte di merito avrebbe valorizzato gli elementi di accusa contenuti nella sentenza di primo grado senza tenere alcun conto delle censure proposte con l'atto di appello (che viene unito in copia al ricorso) avallando la mancanza di motivazione da cui era affetta la sentenza del primo giudice.

In particolare la sentenza impugnata avrebbe violato la regola dell'"al di là di ogni ragionevole dubbio" - oggi normativamente prevista dall'art. 533, comma 1 - perchè, pur dando atto delle divergenti opinioni scientifiche sull'efficacia causale delle esposizioni, non avrebbe motivato sull'opzione per una di queste tesi e sulla plausibilità di quelle contrapposte. Ciò in particolare per quanto riguarda, nel caso di esposizione alle fibre di amianto, l'efficienza causale delle dosi successive a quella che aveva innescato il processo tumorale. E analoghe critiche vengono rivolte alla sentenza impugnata in merito all'eziologia dei carcinomi polmonare e vescicale; tutte patologie per le quali i ricorrenti avevano chiesto che venisse disposta un'indagine epidemiologica tra i lavoratori degli stabilimenti (OMISSIS).

La sentenza impugnata avrebbe poi - in violazione dei principi affermati dalla sentenza Franzese delle sezioni unite di questa Corte - attribuito l'efficacia di semplice concausa al fumo di sigaretta senza alcuna conferma scientifica e sul presupposto, indimostrato, di un'esposizione ad elevati livelli di sostanze nocive.

Con il terzo motivo si deduce il vizio di motivazione con riferimento ai punti relativi alle patologie dei tumori vescicali e polmonari e in relazione al diniego di disporre l'indagine epidemiologica in presenza di uno studio (della dott. N.) che dimostrerebbe che le patologie indicate avevano, nei lavoratori degli stabilimenti (omissis), un'incidenza addirittura inferiore a quella rilevata nella popolazione nazionale o in quella della regione Piemonte. Per poi contraddirsi, dopo aver ritenuto irrilevante lo studio epidemiologico, laddove vengono indicati dati statistici (erronei) sull'incidenza dei tumori polmonari nei fumatori.

Con il quarto motivo vengono dedotti il vizio di motivazione e la violazione dell'art. 27 Cost. e art. 43 c.p.. In particolare la Corte di merito avrebbe violato il precetto costituzionale della personalità della responsabilità penale facendo gravare sui ricorrenti scelte di politica aziendale attribuibili al "gruppo (omissis)" e confermando l'affermazione di una responsabilità che è possibile definire esclusivamente "di posizione".

In secondo luogo la sentenza impugnata avrebbe omesso di motivare sulla prevedibilità degli eventi in presenza di una situazione nella quale, all'epoca delle condotte, erano sconosciute le potenzialità lesive delle sostanze cui i lavoratori erano esposti; potenzialità che peraltro, ancor oggi, non sono interamente conosciute.

I ricorrenti rilevano poi come i giudici di merito abbiano violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza ritenendo la condotta degli imputati di natura commissiva mentre la contestazione si riferiva a fatti omissivi. Da ciò la conseguenza che i giudici di merito hanno potuto ricollegare l'evento alla condotta degli agenti sulla base del mero rapporto di causalità mentre, se avessero ritenuto l'esistenza di un reato emissivo improprio, avrebbero dovuto fornire la prova che la condotta omessa era diretta ad evitare lo specifico evento prodottosi. Priva di motivazione sarebbe poi la sentenza impugnata sull'analisi della c.d. misura oggettiva della colpa (lo scarto tra la condotta concretamente tenuta e quella che avrebbe tenuto l'agente modello).

Tornando al tema della prevedibilità i ricorrenti si chiedono infine se sia ammissibile - senza sconfinare nell'area del versar in re illecita - ipotizzare una responsabilità penale per un evento che non era neppure congetturabile all'epoca della condotta. E se sia consentito ex post ipotizzare regole cautelari più efficaci quando quelle prescritte erano state osservate. La risposta è ovviamente negativa sul primo quesito mentre, sul secondo, si osserva che un'affermazione positiva si porrebbe in contrasto con i criteri che disciplinano la misura della diligenza esigibile.

5) Per ragioni di ordine logico va esaminato preliminarmente il ricorso del Procuratore generale perchè l'accoglimento di questa impugnazione rimetterebbe in discussione la dichiarazione di estinzione dei reati per il decorso della prescrizione.

Il primo motivo di ricorso - come sè è già precisato -riguarda la concessione dell'attenuante prevista dall'art. 62 c.p., n. 6.

Attenuante che, come è noto, spetta a chi abbia "prima del giudizio, riparato interamente il danno".

E' da tempo riconosciuta, dalla giurisprudenza di legittimità largamente prevalente, la natura soggettiva di questa circostanza che premierebbe l'agente - congiuntamente o alternativamente - o per la verifica della diminuzione della sua capacità a delinquere (questa è anche la tesi esposta nella relazione ministeriale al codice penale) o per l'intervenuta resipiscenza o, infine, perchè si ravvisa nella condotta risarcitoria un ravvedimento attivo.

E' però da rilevare che, oltre ad autorevoli voci dottrinarie dissenzienti, nel senso della natura oggettiva si è espressa la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 138 del 1998 - sia pure con riferimento ad un caso che riguardava la responsabilità civile da circolazione di veicoli e l'avvenuto risarcimento da parte della compagnia assicuratrice - ha affermato che "l'interpretazione dell'attenuante in chiave meramente soggettiva, che ravvisasse in essa una finalità rieducativa, contrasterebbe con l'art. 3 Cost.".

Il tema è stato di recente affrontato anche dalle sezioni unite di questa Corte che, con la sentenza 22 gennaio 2009 n. 5941, Pagani, rv. 242215, hanno intanto escluso che la fattispecie possa essere disciplinata dall'art. 118 c.p.; hanno poi evidenziato che l'attenuante prevista dall'art. 62 c.p., n. 6 è l'unica, tra le attenuanti comuni, che si riferisca ad un reato già perfezionato; e hanno concluso che la disputa sulla natura oggettiva o soggettiva della circostanza avrebbe sostanzialmente natura "nominalistica".

Ciò che rileva, secondo le sezioni unite che si richiamano alla ricordata sentenza della Corte costituzionale, è che l'intervento risarcitorio "sia comunque riferibile all'imputato" (la sentenza indica, tra i casi in cui l'attenuante può estendersi ai concorrenti nel reato, quello del coobbligato solidale che abbia rimborsato la sua quota al complice più diligente o che comunque dimostri "di aver avanzato una seria e concreta offerta di integrale risarcimento".

V'è, nella sentenza delle sezioni unite, una precisazione che riguarda i reati colposi per i quali si osserva che "il criterio di ragionevolezza impone di rilevare, per una visione socialmente adeguata del fenomeno, anche nell'aver stipulato un'assicurazione o nell'aver rispettato gli obblighi assicurativi per salvaguardare la copertura dei danni derivati dall'attività pericolosa".

La precisazione si riferisce anzitutto all'assicurazione per i danni cagionati dalla circolazione stradale che ha quel carattere di obbligatorietà che renderebbe insensato pretendere che l'assicurato proceda ad un risarcimento personale in presenza di un contratto di assicurazione che abbia consentito, in concreto, di risarcire integralmente i danni cagionati. Si è infatti obiettato alle tesi che ritenevano non fosse concedibile l'attenuante nel caso di risarcimento effettuato dalla compagnia di assicurazione chiedendosi che cosa dovrebbe fare il responsabile del sinistro per godere della concessione dell'attenuante: operare perchè la compagnia non proceda al risarcimento e provvedere personalmente ovvero procedere ad un risarcimento personale anche se la compagnia vi ha già provveduto.

L'assurdità delle conseguenze cui conduce la tesi criticata ha condotto all'ormai suo generalizzato rifiuto.

Ma la precisazione operata dalla sezioni unite sul tema del reato colposo sembra avere un ambito di applicazione più ampio: la sentenza ha voluto porre in rilievo, per i reati colposi, che il quid pluris di riferibilità soggettiva può consistere - lo si è già detto ma occorre ribadirlo - anche nell'aver stipulato un'assicurazione o nell'aver rispettato gli obblighi assicurativi per salvaguardare la copertura dei danni derivati dall'attività pericolosa; questo dippiù soggettivo non è necessariamente ricollegato alla copertura assicurativa ma deve comunque dimostrare la partecipazione dell'imputato all'attività riparatrice.

L'esistenza del quid pluris soggettivo costituisce peraltro una valutazione di merito insindacabile nel giudizio di legittimità se adeguatamente e logicamente motivata.

Il che è avvenuto nella specie perchè la Corte di merito non ha affatto eluso il problema ma ha ritenuto possibile ricollegare il risarcimento anche agli imputati sia per la posizione dirigenziale dai medesimi svolta all'interno della soc. (omissis), sia per la circostanza che, nelle quietanze, si afferma che le somme vengono corrisposte non solo dalla società indicata ma anche personalmente dagli imputati.

Trattasi di valutazione che si sottrae al vaglio di legittimità essendo esente da alcuna illogicità. E che vale anche a ritenere infondato il richiamo, fatto dal ricorrente, all'art. 49 comma 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (Trattato di Lisbona) secondo cui "le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato" perchè la partecipazione soggettiva accertata dalla sentenza impugnata vale a garantire la non sproporzionatezza.

Alla conferma della decisione della Corte di merito sul riconoscimento dell'attenuante consegue anche l'irrilevanza del motivo che si riferisce alla richiesta di trasmettere il processo alle sezioni unite perchè risolva il contrasto creatosi a seguito della sentenza 12 gennaio 2010 n. 4936 che ha ritenuto che l'art. 589 c.p., u.c., integri un'aggravante malgrado la costante giurisprudenza di questa Corte abbia sempre ritenuto trattarsi di concorso formale.

A parte il rilievo che trattasi di decisione isolata che neppure motiva il suo convincimento una volta confermato il riconoscimento dell'attenuante del risarcimento del danno e il giudizio di prevalenza delle attenuanti (che il ricorrente solo genericamente contesta) il risultato pratico non muterebbe non potendosi comunque tener conto dell'aggravante per il calcolo del termine di prescrizione che rimarrebbe identico.

6) Le considerazioni che il ricorrente Procuratore generale svolge in merito al secondo motivo di ricorso e in precedenza riassunte sono largamente condivisibili.

Non v'è dubbio che la disciplina della prescrizione costituisca, nel nostro ordinamento, la prima causa della dilatazione dei tempi del processo. La necessità di prevedere un termine di prescrizione dei reati è da tutti riconosciuta: la persona che ha commesso il reato non deve essere sottoposta indefinitamente all'eventualità che lo Stato prenda in considerazione il fatto a lui addebitato sottoponendolo all'instaurazione del processo penale senza alcun limite temporale.

Il presupposto che giustifica l'esistenza di questa causa di estinzione del reato è quindi costituito dal disinteresse dello Stato e dei consociati per la persecuzione del fatto reato commesso.

Ma se questo disinteresse non esiste perchè l'azione penale è stata tempestivamente - e comunque prima che il termine di prescrizione decorresse - esercitata non si vede perchè l'imputato debba essere premiato per l'abilità sua e del difensore di dilatare i tempi del processo o anche soltanto per la complessità dell'accertamento che la natura del processo richiede.

Oltre tutto la disciplina della prescrizione costituisce una delle cause (forse la più rilevante) di un ricorso limitato ai riti alternativi. Se non vi fosse la speranza di lucrare la prescrizione certamente un numero assai maggiore di processi sarebbero definiti con i riti alternativi (si pensi a tutti i casi di responsabilità palese o addirittura di confessione dell'imputato) e si eviterebbe così, o si ridurrebbe sensibilmente, l'intasamento della sede dibattimentale che costituisce la causa principale della durata eccessiva del processo.

Non è un caso, del resto, che nei sistemi anglosassoni, solo una percentuale irrisoria dei processi (si parla di percentuali tra il 5 e il 10 per cento: in sistemi nei quali l'azione penale non è obbligatoria) perviene alla fase dibattimentale.

Sarebbe dunque ragionevole sterilizzare i tempi del processo dopo l'esercizio dell'azione penale prevedendo la sospensione del decorso della prescrizione durante la durata del processo (non diversamente da quanto avviene nel processo civile). Certo la definizione rapida del processo può costituire anche un interesse dell'imputato e quindi potrebbero prevedersi comunque termini massimi (eventualmente nei soli casi in cui la durata del processo dipenda da inefficienze del sistema e non dalla complessità degli accertamenti) oltre i quali la sospensione non opera più sia all'interno di ciascun grado di giudizio sia nel passaggio da un grado all'altro del giudizio.

Ciò premesso la dedotta questione di legittimità costituzionale (con la rafforzativa deduzione di contrasto con l'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali) si rivela (non manifestamente infondata ma) irrilevante perchè la Corte costituzionale non potrebbe che dichiararla manifestamente inammissibile.

E' infatti giurisprudenza costante del giudice delle leggi che non può essere dichiarata l'illegittimità costituzionale di una norma - per il divieto che ne deriva dall'art. 25 Cost., comma 2 - quando la pronunzia si risolva in uno svantaggio per l'imputato (divieto di sentenze additive in malam partem). Si vedano da ultimo, in questo senso, le ordinanze della Corte costituzionale n. 204 del 2009 (proprio in tema di prescrizione), 103 del 2009 (in tema di applicazione dell'indulto) e 66 del 2009 (in tema di trattamento illecito dei dati personali) che hanno dichiarato inammissibili per manifesta infondatezza questioni di legittimità costituzionale dirette ad ottenere pronunzie che avrebbero avuto l'effetto indicato.

7) Passando all'esame dei motivi di ricorso proposti nell'interesse dei ricorrenti va preliminarmente osservato che - avendo il giudice d'appello dichiarato l'estinzione dei reati per prescrizione - vanno premessi, all'esame specifico dei motivi di ricorso, alcuni cenni sui principi che disciplinano il rapporto tra l'accertamento della responsabilità penale e l'obbligo, per il giudice, di immediata applicazione dell'art. 129 c.p.p., comma 2 in presenza di una causa estintiva del reato sia o meno ancora in corso l'azione civile nel processo penale.

Com'è noto il presupposto per l'applicazione dell'art. 129 indicato è costituito dall'evidenza della prova dell'innocenza dell'imputato.

In questo caso la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla causa di estinzione del reato ed è fatto obbligo al giudice di pronunziare la relativa sentenza. I presupposti per l'immediato proscioglimento (l'inesistenza del fatto, l'irrilevanza penale, il non averlo l'imputato commesso) devono però risultare dagli atti in modo incontrovertibile tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione in considerazione della chiarezza della situazione processuale.

In presenza di una causa estintiva del reato non è quindi più applicabile la regola probatoria, prevista dall'art. 530 c.p.p., comma 2, da adottare quando il giudizio sfoci nel suo esito ordinario, ma è necessario che emerga "positivamente" dagli atti, e senza necessità di ulteriori accertamenti, la prova dell'innocenza dell'imputato (cfr. Cass., sez. 5, 2 dicembre 1997 n. 1460, Fratucello; sez. 1, 30 giugno 1993 n. 8859, Mussone).

E' stato affermato che, in questi casi, il giudice procede, più che ad un "apprezzamento", ad una "constatazione" (Cass., sez. 6, 25 marzo 1999 n. 3945, Di Pinto; 25 novembre 1998 n. 12320, Maccan).

Da ciò consegue altresì che non è consentito al giudice di applicare l'art. 129 c.p.p. in casi di incertezza probatoria o di contradditorietà degli elementi di prova acquisiti al processo anche se, in tali casi, ben potrebbe pervenirsi all'assoluzione dell'imputato per avere, il quadro probatorio, caratteristiche di ambivalenza probatoria.

Questi principi sono stati di recente ribaditi dalle sezioni unite di questa Corte con sentenza (28 maggio 2009 n. 35490, Tettamanti, rv.

244273-4-5) alle cui condivisibili argomentazioni si rinvia.

Coerente con questa impostazione è anche la uniforme giurisprudenza di legittimità che, fondandosi anche sull'obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, esclude che il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre all'annullamento con rinvio, possa essere rilevato dal giudice di legittimità che, in questi casi, deve invece dichiarare l'estinzione del reato (cfr. la citata sentenza Maccan della 5 sezione ed inoltre sez. 1, 7 luglio 1994 n. 10822, Boiani). In caso di annullamento, infatti, il giudice del rinvio si troverebbe nella medesima situazione che gli impone l'obbligo della immediata declaratoria della causa di estinzione del reato.

Ma questi principi sono applicabili, per quanto attiene alla responsabilità penale dell'imputato, nei casi in cui sia stata proposta l'azione civile nel processo penale, solo nel giudizio di primo grado all'esito del quale non può il giudice dichiarare estinto il reato e pronunziarsi sull'azione civile (cfr. Cass., sez. 4, 1 ottobre 1993 n. 10471).

Nel giudizio d'impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d'appello) ed essendo ancora pendente l'azione civile, il giudice penale, secondo il disposto dell'art. 578 c.p.p., è tenuto, quando accerti l'estinzione del reato per amnistia o prescrizione, ad esaminare il fondamento della medesima azione (penale).

In questi casi la cognizione del giudice penale, sia pure ai soli effetti civili, rimane integra e il giudice dell'impugnazione deve verificare, senza alcun limite, l'esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle restituzioni o al risarcimento pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d'appello nel caso in cui l'estinzione del reato sia stata da lui pronunziata o debba essere emessa dalla Corte di cassazione). Costituisce quindi principio inderogabile del processo penale quello secondo cui la condanna al risarcimento o alle restituzioni può essere pronunziata solo se il giudice penale ritenga accertata la responsabilità penale dell'imputato; anche se l'estinzione del reato non gli consente di pronunziare condanna penale.

Va però ancora ricordato che la sentenza delle sezioni unite Tettamanti, in precedenza ricordata, ha affermato che il principio richiamato sulla prevalenza della causa di estinzione del reato nel caso di dedotto vizio di motivazione trova un temperamento in due ipotesi. La prima riguarda il caso di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 2 e impugnazione del pubblico ministero: in questo caso, secondo le sezioni unite, se il giudice di appello ritiene infondato nel merito l'appello del pubblico ministero deve confermare la sentenza di assoluzione.

Il secondo caso attiene invece più specificamente all'ipotesi dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale: il giudice di appello è tenuto, anche nel caso in cui il reato sia estinto per amnistia o prescrizione, ad esaminare l'esistenza dei presupposti per la condanna penale quando sia ancora presente nel processo la parte civile; in tale caso ove pervenga, all'esito di questo esame, a ritenere l'insufficienza o la contraddittorietà del compendio probatorio deve pronunziare sentenza di assoluzione nel merito.

Secondo le sezioni unite questa deroga ai principi in precedenza enunciati si fonda sulla considerazione "che alcun ostacolo procedurale, nè le esigenze di economia processuale (che, come più volte detto, costituiscono, con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, la ratio ed il fondamento della disposizione di cui all'art. 129 c.p.p., comma 2), possono impedire la piena attuazione del principio del favor rei con l'applicazione della regola probatoria di cui all'art. 530, comma 2".

E' da rilevare che la deroga, come hanno precisato le sezioni unite, riguarda esclusivamente il giudizio di appello non essendo attribuita, al giudice di legittimità, una funzione di rivalutazione del compendio probatorio.

4) Alla luce dei principi esposti nel presente giudizio di legittimità andrà dunque verificato se la sentenza impugnata abbia adeguatamente e logicamente motivato sull'esistenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 129 c.p.p., comma 2.

Il primo profilo della censura proposta con il ricorso è peraltro da ritenere infondato. Secondo i ricorrenti poichè, prima della pronunzia di secondo grado, non era ancora decorso il termine di prescrizione in relazione ai delitti di omicidio colposo - perchè non era stata ancora concessa l'attenuante che aveva consentito il nuovo giudizio di comparazione delle circostanze - il giudice di appello avrebbe dovuto esaminare senza alcun limite i motivi di appello e non limitarsi alla verifica dell'inesistenza della prova dell'innocenza degli imputati.

Il motivo è infondato perchè si fonda su un presupposto non condivisibile: che la sentenza che accerta l'esistenza della causa estintiva abbia natura costitutiva. Solo se così ricostruita si può ritenere che il giudice abbia l'obbligo di valutare preventivamente l'esistenza dei presupposti per la dichiarazione di estinzione del reato.

In realtà la sentenza che accerta l'esistenza di una causa estintiva del reato - anche se per causa diversa dalla prescrizione - si limita a prendere atto di un effetto estintivo già verificatosi e ha dunque natura meramente dichiarativa dell'effetto estintivo in precedenza verificatosi (anche se in base ad accertamenti e valutazioni svolti al momento della pronunzia) e non già efficacia costitutiva del medesimo.

Il giudice verifica infatti l'esistenza dei presupposti dell'estinzione (compresa l'esistenza delle attenuanti quando queste circostanze, come nel caso in esame, avevano rilievo in base alla precedente normativa che) che peraltro si verifica non per l'effetto e dal momento della sua dichiarazione ma per il decorso del tempo necessario e al momento in cui il termine è decorso.

E' dunque privo di alcun rilievo che l'esistenza della circostanza che ha consentito di dichiarare estinti i reati sia stata accertata con la pronunzia della sentenza dichiarativa della prescrizione. E' in questo momento che il giudice, verificata l'esistenza di una causa di estinzione del reato, deve valutare l'esistenza dei presupposti indicati nel citato art. 129, comma 2.

5) Passando all'esame degli altri motivi di ricorso deve rilevarsi che le censure proposte non consentono di ritenere esistente la prova dell'innocenza degli imputati nel senso già indicato.

La sentenza impugnata, nel confermare quella di primo grado, si è infatti preoccupata di fornire di adeguata motivazione tutte le sue considerazioni e valutazioni in merito ai principali punti di dissenso espressi con gli appelli e ciò in particolare per quanto riguarda gli aspetti di maggior rilievo concernenti sia il rapporto di causalità tra le esposizioni cui i lavoratori deceduti erano stati sottoposti e gli eventi mortali verificatisi sia l'esistenza dell'elemento soggettivo del reato.

Sotto il primo profilo - l'esistenza del rapporto di causalità - la Corte di merito ha rilevato anzitutto come già la sentenza di primo grado avesse escluso l'esistenza del nesso eziologico nei casi in cui era ragionevolmente ipotizzabile che l'evento potesse essere astrattamente riconducibile causalmente ad un fattore alternativo.

La Corte ha preso in considerazioni i decessi riguardanti questo processo; ha precisato che i lavoratori deceduti avevano prestato la loro attività per numerosi anni in ambienti dove erano stati sottoposti alle esposizioni nocive e ha ricondotto a tali esposizioni le malattie contratte.

In particolare i giudici di appello hanno accertato che a BA. V., deceduto nel (OMISSIS) per broncopneumopatia cronica ostruttiva, era stata riconosciuta, nel 1991, la natura di malattia professionale della patologia da cui era affetto e ritenuta cagionata dai solventi utilizzati nella lavorazione alla quale era addetto pur ammettendo un'efficacia concausale del fumo di tabacco.

G.P. è invece deceduto per mesotelioma pleurico; egli aveva lavorato come fuochista, dal 1963 al 1994, presso la centrale termica dove gran parte degli impianti, della cui manutenzione si occupava, erano ricoperti da amianto. Ha escluso, la sentenza impugnata, che il predetto fosse stato esposto ad altri agenti patogeni idonei a provocare la malattia contratta; ha fatto riferimento ai pareri degli esperti acquisiti al processo secondo cui la continuazione dell'esposizione, anche dopo l'induzione, accelera il processo di sviluppo della neoplasia.

Per quanto riguarda invece BO.EM., BR.GI. e C.V., tutti deceduti per carcinoma polmonare, la sentenza impugnata ha riportato (a p. 20) tutti i fattori patogeni idonei a provocarlo, oltre all'amianto, e ha accertato che tutti e tre erano stati esposti per lunghi anni a questi fattori. Ha tenuto conto della possibile efficacia concausale del fumo di tabacco escludendo, come nel caso di BA., che la patologia che aveva cagionato la morte dei tre lavoratori, potesse essere ricollegata esclusivamente a questa nociva abitudine.

Per quanto riguarda poi la richiesta di un'indagine epidemiologica - la cui reiezione forma oggetto del terzo motivo di ricorso - è noto che questo tipo di indagine è idonea a fornire notizie utilizzabili nel processo solo per quanto attiene all'esistenza della causalità generale e non la causalità del singolo caso.

Ma la prova richiesta è comunque priva di alcuna decisività perchè, se anche fornisse un esito conforme alle aspettative dei richiedenti - nel senso che le malattie professionali verificatesi negli stabilimenti (OMISSIS) avrebbero un'incidenza percentuale in linea con le popolazioni non esposte - ciò non varrebbe ad escludere il rapporto di causalità ove fosse dimostrata l'astratta idoneità della sostanza a provocare quella malattia (causalità generale) e l'evidenza disponibile consentisse di ricondurre la malattia concretamente verificatasi all'esposizione in assenza di ipotizzabili fattori causali alternativi.

Deve dunque escludersi che, sotto il profilo dell'esistenza del rapporto di causalità, esistano elementi idonei a far ritenere evidente la prova nel senso voluto dai ricorrenti.

Così come non è stata acquisita analoga prova che gli imputati non fossero tenuti a disporre che venissero adottate misure cautelari atte ad evitare le massicce esposizioni cui i lavoratori erano sottoposti. La posizione apicale degli imputati imponeva loro di prendere le iniziative necessarie perchè negli stabilimenti (OMISSIS) fossero garantite le condizioni di tuela della salute all'epoca esigibili. Non può dunque parlarsi di "responsabilità di posizione" essendo stati, gli imputati, titolari di una posizione di garanzia proprio in relazione alla necessità di evitare il verificarsi degli eventi di cui trattasi.

6) Analoghe considerazioni possono farsi per quanto riguarda l'elemento soggettivo del reato. Le sentenze di merito hanno infatti evidenziato come le prove acquisite al processo abbiano confermato che tutti i lavoratori deceduti avevano iniziato a lavorare presso la stabilimento (OMISSIS) fin dagli anni 60 senza che venisse adottata alcuna precauzione per evitare l'esposizione alle polveri nocive (impianti di aspirazione e di ventilazione; divisori tra i reparti ecc.). Non solo: i giudici di merito hanno accertato una carente sorveglianza sanitaria e in generale un'insufficiente attenzione ai problemi riguardanti la salute dei lavoratori.

In particolare G., come si è già accennato, era esposto alle polveri di amianto mentre gli altri lavoratori deceduti erano addetti al miscelatore Bumbery, al reparto vulcanizzazioni o al reparto mescole dove si operava con elevata esposizione alle sostanze nocive, senza alcuna protezione e senza che fosse stata fornita alcuna informazione sui rischi di tale esposizione.

Del tutto logica è dunque la conclusione che gli imputati abbiano violato, quanto meno, il D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303, artt. 20 e 21 (norme generali per l'igiene del lavoro) contestata nei capi d'imputazione e riguardanti la difesa contro le polveri e i prodotti nocivi.

Sempre con riferimento all'elemento soggettivo contestano i ricorrenti la prevedibilità degli eventi in concreto verificatisi ma, anche in questo caso, la censura si risolve nel dedurre un vizio di motivazione. Infatti le sentenze di merito (in particolare quella di primo grado: v. p. 115 ss.) hanno precisato come di tutte le sostanze cui i lavoratori dello stabilimento (OMISSIS) sono stati nel corso degli anni esposti fossero conosciute le potenzialità gravemente lesive, anche mortali, sulla salute anche se, in qualche caso, solo successivamente si è accertato che tali sostanze erano idonee a provocare anche ulteriori patologie peraltro analoghe a quelle già conosciute (in particolare forme tumorali di natura diversa).

Dunque anche per quanto riguarda l'elemento soggettivo le dedotte censure non sono sufficienti - anche se, in via di mera ipotesi, potessero ritenersi almeno in parte fondate - a far ritenere evidente la prova dell'innocenza degli imputati.

7) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto di tutti i ricorsi con la condanna dei ricorrenti I.L., G.L., B.G., O.G., P.L., T.M. e F.D. al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta penale, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti I.L., G.L., B.G., O.G., P.L., T.M. e F.D. al pagamento delle spese processuali.

Roma, il 24 giugno 2011. Depositato 19 luglio 2011